Associazione professionale Proteo Fare Sapere
01 maggio 2024

È ancora “Primo maggio”

di Dario Missaglia, Cts Proteo Fare Sapere

Se penso alla durezza dei tempi in cui cade questo Primo maggio del 2024, mi viene in mente un discorso rimasto indelebile di Giuseppe Di Vittorio nel 1953.
L’Italia era in piena crisi. Il futuro, per le classi sociali più deboli, appariva carico di dolore, povertà, privazioni e di grande incertezza. E fu allora che Giuseppe Di Vittorio fece appello alla sua autonomia di grande dirigente sindacale per rilanciare la forza creativa della persona che lavora, che lotta per emancipare il lavoro dalle catene dello sfruttamento, che testardamente si propone di cambiare quella realtà che appare a lui così minacciosa.

Rinforzava così l’iniziativa per quel “Piano per il Lavoro” che avrebbe sparigliato il gioco politico di quegli anni, preparando la crisi del centrismo e la strada verso i primi governi di centro sinistra e soprattutto una nuova fase di espansione e redistribuzione della ricchezza che avrebbe segnato gli anni ’60.

La guerra era alle spalle. Avanzava il desiderio di ricostruire, tornare alla vita, mettere in sicurezza un bene che l’Europa aveva visto travolto e distrutto, pagando un prezzo inimmaginabile. Cinquanta milioni di morti. Bisognava iniziare a costruire l’Europa della pace.

E invece, a distanza di quasi 80 anni, la guerra torna ad affacciarsi in una Europa che pare aver dimenticato gli orrori di quel passato e le premesse da cui è nata.

Siamo in guerra, si producono e si vendono armi, il conto delle vittime e dei bombardamenti entra a far parte della cronaca quotidiana. Non è accettabile che mentre, giustamente, si sostiene una nazione aggredita non si lavori nello stesso tempo, con pari ostinazione e comune intento, a costruire un percorso negoziale in cui rimettere all’ordine del giorno la sicurezza, per tutte le parti in causa, dei confini orientali. Non è accettabile che a Gaza si consumi un dramma umanitario senza che l’ONU riesca ad imporre una tregua.

La pace dunque prima di ogni cosa. Chi educa non può che lavorare per la pace, per il primato della politica e non delle armi; risvegliare le coscienze è compito fondamentale della scuola e dei suoi protagonisti. Un Paese che “si abitua” a convivere con la guerra senza reazioni significative, è un Paese pronto per la guerra. Bisogna per questo sconfiggere ogni inerzia.

Solo in questo modo possiamo concorre a costruire quella “comunità di destino” (Morin) che potrà rendere possibile un “solo pianeta, una sola umanità” (Bauman).

Se si parte da questa insopprimibile esigenza si comprende da subito la debolezza di un’Europa che non è stata finora in grado di svolgere alcun ruolo autonomo sugli scenari di crisi e sui cambiamenti profondi del nostro tempo. Un’Europa che ha bisogno di un programma ambizioso di riforme e di uno sguardo sociale ben diverso da quello fino ad oggi prevalso: solo il mondo del lavoro, per tornare a Di Vittorio, le persone che lavorano, potranno costruire l’Europa della pace e della solidarietà. La partecipazione dei lavoratori è la condizione essenziale per costruire la nuova Europa, progettare ed avviare un nuovo modello di società capace di aggredire le diseguaglianze. Un futuro in cui al centro ci sia la persona che lavora e non il lavoro pensato dagli algoritmi. La conoscenza e il sapere delle persone, per fronteggiare un tempo di cambiamenti e incertezze, come ci hanno testardamente ricordato Di Vittorio e Bruno Trentin.

La persona nel lavoro, cioè con la propria autonomia di determinarne il senso e la direzione. Perché solo in questo modo il lavoro diventa esperienza positiva di vita, di relazione con gli altri, di rapporto con se stessi. Centralismi di diverso tipo sono in agguato per impedire questa libertà nel lavoro.

Il centralismo di una impresa miope, piegata soltanto sul profitto senza limiti, e sulla speculazione finanziaria; un modello di impresa che ha dimenticato le alternative possibili come ci ha insegnato Adriano Olivetti. Il centralismo delle pubbliche amministrazioni, in particolare la scuola, dove un ministro detta le norme per una scuola tutto ordine, disciplina, voti, sanzioni. Una scuola umiliata nel profondo della sua autonomia di progetto educativo per i bambini, i giovani, la società.

Il centralismo di quanti aspirano all’autonomia differenziata, cioè al welfare ridotto a mercato libero delle spinte privatistiche, dalla sanità alla scuola. I cultori del centralismo più profondo, quello che si esprime in contesti diversi nel mito del leader solo al comando, pronto ad usare le persone come mezzo per il proprio successo. Tutte contraddizioni e spinte regressive da contrastare duramente in primo luogo riprendendosi i luoghi della partecipazione ed impedire che siano le minoranze a governare la maggioranza di questo Paese.

Senza questa partecipazione, che è democrazia in azione, non ci sarebbe stata la Costituzione antifascista nata nel ’48, non ci sarà l’Europa di cui abbiamo bisogno e una svolta nelle politiche del Paese. Un tempo, anche dal mondo sindacale, si faceva appello all’internazionalismo contro le derive nazionaliste. Oggi siamo consapevoli che il percorso è più complesso. Abitare questo mondo vuol dire costruire identità multiple, da quella territoriale a quella mondiale perché questa dimensione multipla è il segno del nostro presente. Ed essa parte dal riconoscimento e dall’affermazione dei diritti della persona, a partire dal diritto al sapere e al lavoro. Persone riconosciute nella loro differenza di genere, provenienza, condizione sociale e raccolte attorno ad un soggetto che le vuole riconnettere a un destino di dignità senza confini. È questo il significato profondo della nascita delle Camere del lavoro in Italia che, diversamente da altri Paesi, non ha offerto il fianco al sindacato di mestiere, al sindacato corporativo; un sindacato per questo risorsa e presidio della democrazia e della nostra Costituzione, contro ogni tentativo di involuzione.

Un movimento dei lavoratori che si rimette in cammino per una società solidale e garante dei diritti. Perché questa è ancora la storia da scrivere.

È anche la storia della nostra Cgil, chiamata a nuove ed impegnative sfide, forte della partecipazione in prima persona dei lavoratori. Anche in questo Primo maggio del 2024.