La recrudescenza violenta del virus, con il suo carico di dolore, sofferenze e anche di un incalcolabile danno all’economia del Paese e al suo tessuto produttivo, apre lo scenario che non avremmo voluto. Il precipitare di una crisi sociale ed economica drammatica, dirompente. E i segnali già si intravedono.
Uno scenario forse imprevisto, forse rimosso troppo presto nei mesi scorsi. Quest’estate ha preso campo una narrazione che ci consolava con la caduta della carica virale della pandemia, della vita al sole e all’aperto che ricacciava indietro il virus; in alcune circostanze, colpiti da una improvvisa smania di protagonismo, alcuni “esperti” ci illuminavano sulle sorti regressive del virus. E le scelte politiche, indubbio negarlo, ne hanno risentito, anche sospinte con forza da tante lobbies economiche che premevano per un “ritorno alla normalità”.
Scelte politiche, anche sospinte da un desiderio diffuso, del tutto comprensibile, di tornare a vivere, uscire, godere di musica, sport, teatro, ecc.; ritrovare soprattutto quella socialità reclusa dalla pandemia e dal silenzio sulle conseguenze affettive, psicologiche, educative che quelle esperienze avevano lasciato in tutti, dai più piccoli ai più grandi, nei lunghi mesi del confinamento.
Io penso che questo contesto abbia pesato molto sulla riapertura della scuola. Quel fine settembre deve essere sembrato a qualcuno, nei mesi precedenti, una data di tutta sicurezza e tranquillità. Le pressioni del sindacato per un piano immediato di conferma del personale già impegnato, potenziamento degli organici, norme di sicurezza, ecc. devono essere state interpretate come eccessivo protagonismo sindacale da ignorare, sabotaggio in piena regola di chi affermava che tutto era pronto. Eccoli i risultati di questa penosa autodifesa. Una sconcertante situazione da cui appare chiaro un dato: l’amministrazione non aveva provveduto neppure a definire un piano B in caso di necessità. E allora avanti con l’improvvisazione, le pressioni sui dirigenti, territoriali e scolastici, per recuperare il tempo perduto e le cattedre ancora vuote, le disposizioni sanitarie come la spiegazione di ogni difficoltà e limite. Un quadro desolante e sconcertante.
Infine la ripartenza è arrivata e anche noi abbiamo pensato che finalmente si potesse iniziare a parlare di relazione educativa, di riflessione su quei mesi che hanno cambiato le nostre vite, di come dare un senso nuovo alla didattica in aula.
Il ritorno del virus ci ricaccia nel vicolo cieco, nella paura e nel dolore, nel ritorno della didattica a distanza, nella reiterazione di provvedimenti di emergenza non privi di limiti e di incertezze.
Ora, a cose fatte, il governo fa della scuola aperta, almeno in parte, un punto di non ritorno. Tutti colgono al volo che non si tratta di una scelta “culturale”. È la condizione difficilissima, al limite della resistenza, di un governo che non può tornare a chiudere il Paese, mentre monta una protesta in cui confluiscono pericolosamente spinte e tensioni di diverso tipo.
E allora la scuola del primo ciclo deve restare aperta per consentire l’attività di milioni di persone e si deve contenere, non meno del 75%, la frequenza alle scuole superiori, con l’obiettivo di alleggerire la pressione sui mezzi di trasporto.
Da qui è partita la gara tra diversi Presidenti di regione (non sono “governatori”, ricordiamolo sempre) a chi proponeva l’intervento più radicale. Non parleremo in questa sede della didattica a distanza fatta lasciando i giovani a casa.
Ci interessa invece cogliere ciò che questa situazione ha evidenziato più di quanto fosse chiaro prima: l’assenza di governo, del governo territoriale dei processi che più da vicino riguardano i cittadini: la scuola, la sanità, i trasporti. È del tutto evidente che non esisteva la prospettiva miracolosa di nuovi bus; l’unica strada praticabile era la concertazione, a livello territoriale, della rimodulazione degli orari di apertura /chiusura di uffici pubblici, scuole, esercizi commerciali, ecc., in modo da diluire le ondate di traffico ed evitare gli assembramenti. Ma questo governo territoriale, in cui le agenzie del trasporto, i sindaci, le organizzazioni sindacali, le associazioni degli utenti, i rappresentanti della scuola, avrebbero potuto ritrovarsi per decidere, non esiste. Esistono i presidenti di regione e i sindaci, in competizione e talvolta in conflitto, ciascuno a difendere le proprie intoccabili prerogative e tutti in diritto di decidere sulla scuola. Il territorio è diventato un non-luogo, svuotato pericolosamente di ogni istanza di partecipazione democratica. La responsabilità non è nelle norme che non mancano ma nella politica che non le attua. Ma non ci deve preoccupare di meno anche la povertà culturale di una politica che ha seppellito i valori di prossimità e il valore delle relazioni sociali.
Attaccano l’autonomia della scuola, grida qualcuno. Ma quale autonomia! Senza un governo territoriale, l’autonomia è l’abbandono a se stessi, l’autarchia, il solipsismo. Ovviamente non se ne accorge l’ANP che crede di rappresentare le scuole e invece rappresenta solo una parte dei presidi.
La crisi indotta dalla pandemia ha messo a nudo la debolezza strutturale dell’autonomia anche dal versante istituzionale; un limite che va aggredito, pena l’azzeramento delle potenzialità che l’autonomia aveva aperto nella scuola e nella società. Vediamo di non scordarcene, a fine pandemia.
Ma gli eventi di questi mesi ci dicono anche che dobbiamo sforzarci di programmare il futuro, sia pure con le diverse variabili aperte. Nessuno di noi può dire quando terminerà la pandemia o perlomeno quando sarà possibile riprendere una socialità meno compressa. E tuttavia dobbiamo prepararci a quella fase. Pensiamo ai nostri ragazzi/e; hanno perso oltre sei mesi di attività didattica in presenza nell’a. s. 2019/20. E ora, alle superiori, perderanno un altro periodo di didattica in presenza (1, 2, 3 mesi di apprendimenti, esperienze, maturazione di stili ecc.), anche se non tutti e non tutti nella stessa misura, avvertiranno il peso di questa perdita. Che cosa si pensa di fare quando sarà possibile tornare in piena attività?
Tirare una riga e basta? Come rimettere a punto un percorso formativo così compromesso? Con quali modalità, risorse, idee? Se questa discussione non la faranno innanzitutto i docenti nelle scuole, individuando ipotesi e proposte di lavoro, non la farà nessuno. Quando, come Associazione Proteo, abbiamo pensato a un protocollo pedagogico, pensavamo proprio a questo. Non facciamoci ricacciare indietro dalla paura. Il tempo del post pandemia deve iniziare adesso, anche nel pieno della durezza di questa fase, per iniziare un nuovo percorso verso una scuola capace di pensare e progettare il cambiamento profondo di cui ha bisogno.
Dario Missaglia
29 ottobre 2020