Proprio un anno fa, pochi giorni dopo i primi drammatici segnali di Codogno, la scuola italiana ha vissuto un’esperienza unica nella sua storia: una iniziale e lunga fase di sospensione delle attività didattiche “in presenza”, giunta sino ai nostri giorni tra annunci, ritorni parziali, nuove sospensioni, speranze e delusioni. Non vi sono precedenti. Persino durante la guerra e anche nella fase più dura del secondo conflitto mondiale, la scuola continuò a funzionare. A singhiozzo, certo, e spesso interrotta dalle sirene che annunciavano l’evacuazione dei locali, l’uso della mascherina (antigas) e il percorso per raggiungere il rifugio antiaereo più vicino. Storie che conosciamo non solo per il sofferto racconto dei nostri nonni, dei nostri genitori ma anche da diari, annotazioni dei docenti, registri di scuola e rapporti ufficiali dell’epoca.
Mi chiedo oggi se qualcuno avrà tenuto un diario di questo anno così inedito, raccogliendo in qualche testo le impressioni, i sogni, le discussioni sull’esperienza dell’incontro con la pandemia, i disegni dei bambini che ci racconteranno le loro paure. E le scuole, come si sono organizzate tra dad e no-dad, voti sì/voti-no, nomine in attesa, banchi (con o senza rotelle), aule, numero di alunni per classe? Non so se vi sia stata nelle scuole una discussione, un dibattito o se abbia prevalso l’azione dei presidi. È difficile capire come i giovani, quelli della scuola secondaria superiore, abbiano vissuto la privazione di socialità e se abbiano scritto, prodotto qualcosa che è rimasto nelle aule scolastiche. Ad oggi, mentre purtroppo l’emergenza prosegue, anche se il vaccino ha finalmente segnato un punto fermo, non vedo ancora emergere, in forma di documentazione disponibile, i segni di questa esperienza individuale e sociale.
Lancio perciò un appello, ai nostri dirigenti di Proteo, agli insegnanti, ai genitori, agli studenti: mandateci ciò che avete elaborato o raccolto e vedremo di farne una pubblicazione come documentazione di un evento che ritroveremo sui libri di storia e che già da ora potrebbe aiutarci a capire, riflettere.
Riflessività ed etica della responsabilità
Perché la riflessività che abbiamo auspicato con il nostro “Protocollo pedagogico” dei mesi scorsi, bisogna innanzitutto praticarla su se stessi.
La scuola in tempo di guerra; una espressione che è tornata attuale. Il Ministro della Salute la ripete spesso e lo capisco. La guerra evoca un nemico da sconfiggere; evoca la necessità di unirsi ad ogni costo per sconfiggere l’altro-da-noi e se di guerra parliamo, bisogna obbedire agli ordini; chi trasgredisce è un traditore da condannare, sanzionare, additare al pubblico ludibrio. Comprendo le ragioni dell’argomentare in tal senso, ma è un errore. La cultura securitaria che ha dominato la gestione della pandemia, ha mostrato tutti suoi limiti. Più che sull’obbedienza, lo Stato avrebbe dovuto scommettere sulla responsabilità e la scuola avrebbe potuto essere un luogo importante per praticare questa cultura. È sconcertante che In questi mesi non sia venuto in mente a qualcuno che forse le aule e gli insegnanti (in questo caso anche a distanza) avrebbero potuto essere preziosi alleati di medici ed esperti per una campagna di sensibilizzazione, di conoscenza, di responsabilità diffusa andando ben oltre l’ordine di obbedire. Meno comparse in tv e più presenza nelle scuole, con gli insegnanti, con i giovani.
La conoscenza, la riflessione sui dati disponibili, avrebbero potuto consentire di comprendere le ragioni degli eventi che viviamo e che non sono la conseguenza di una guerra. Il nemico non è altro-da noi; noi siamo diventati i nemici di noi stessi e del mondo che abitiamo. Il consumo ad ogni costo ha vinto nei modelli sociali di riferimento coprendo, nello stesso tempo, le conseguenze devastanti che questo avrebbe avuto nei destini del mondo: diseguaglianze sociali, squilibri nel rapporto con la natura con tutte le conseguenze, sul clima e sulla salute. Il peso della responsabilità che grava sui nostri comportamenti nasce da questa conquista di consapevolezza. Questi temi quando diventeranno “programma” per la scuola, apprendimento per i nostri bambini e giovani?
Il mondo è davanti a noi con le sue contraddizioni che vanno conosciute, esplorate, studiate: un percorso fatto di storia, lingua, filosofia, scienze, matematica, economia e tante altre discipline, tutte dentro un percorso che non tollera cattedre e frazionamenti ma esige la stupenda scoperta delle relazioni che si intrecciano e ci spiegano il mondo in cui viviamo.
Questioni e problemi che richiedono un impegno cooperativo tra insegnanti.
Non ci vuole lo psicologo nelle aule ma una scuola capace di riappropriarsi di quella autonomia didattica che appartiene a chi insegna e che nessuno può sequestrare o sospendere. Anche se abbiamo assistito allo scempio dell’autonomia dal punto di vista istituzionale, con ansiosi protagonisti del potere pronti a decidere sulla scuola senza mai essere sfiorati dallo scrupolo di consultare almeno i dirigenti scolastici, per non parlare di organi collegiali e sindacati.
Tutti appunti per il nuovo governo e per chi non si rassegna. E il rischio della rassegnazione, della rabbia che potrebbe diventare ripiegamento, esiste. Lo specialismo disciplinare, “il curricolo duro” fatto di compiti e interrogazioni, rischia di essere la risposta sbagliata a un dibattito sul cosiddetto recupero e calendario scolastico. Dibattito legittimo, intendiamoci, perché, a fronte di tanti mesi perduti di scuola in presenza, un problema c’è e non è di facile soluzione perché le conseguenze si sono distribuite in modo molto differenziato nel Paese. E se la discussione consentisse persino di ridiscutere su un modello di calendario ancora legato alla società agricola, con una pausa estiva per alunni e studenti che non esiste più in nessun paese europeo, sarebbe persino utile. Come sarebbe utile fare la cosa più semplice: chiedere alle scuole un bilancio di attività: quanto è stato fatto in presenza, in dad, con quali esiti accertati, con quali idee e proposte per i mesi a venire, avendo cura della qualità delle relazioni (tra adulti e con gli alunni), che sono il bene più prezioso. Ridare la parola alle scuole, così duramente espropriate da una maldestra gestione della scuola al tempo del Covid e riaprire gli spazi dell’autonomia.
Dallo slancio generoso al rischio di ripiegamento
Temo rischi involutivi. Nei mesi che vanno da marzo a giugno 2020, la risposta spontanea di migliaia di docenti, che in qualche modo hanno tentato di ridurre il distanziamento e di fare sentire la propria vicinanza a genitori e studenti, è stata sorprendente. Difficile valutarne la qualità didattica, ma l’impatto educativo, emotivo, relazionale e civico, è stato molto forte. Proteo ha letto quel messaggio e ha cercato di interpretarlo con quel “Protocollo pedagogico per il ritorno a scuola” che ha avuto un’eco visibile dentro e fuori la scuola.
Quel messaggio non lo hanno raccolto né il governo né la ministra di allora. Si arriva a giugno senza idee e progetti e senza neppure tentare, nei mesi estivi, qualche esperienza, guidata e in sicurezza, per i più piccoli. Qualcuno scommette sulla soluzione “naturale” del problema-pandemia e inizia una torsione del movimento che si era espresso. Il disastro di settembre, la sistematica elusione di tutte le proposte concrete che il sindacato aveva formulato per un efficiente ritorno a scuola e in sicurezza, il ritardo incomprensibile delle nomine, l’assenza di un piano per fronteggiare la pandemia che ritornava e l’ostinata assenza di una riflessione culturale sugli eventi, imprime a quel punto un ripiegamento. L’entusiasmo e la ricerca lasciano il passo alla delusione, alla rabbia, alla caduta di partecipazione. Non c’è nulla di peggio che deprimere una spinta propositiva che attende risposte positive, ed è proprio quel che è accaduto. Abbiamo capito tutti che la scuola non è stata ritenuta una vera priorità: a distanza di mesi, non abbiamo dati sull’andamento della pandemia nelle scuole, non sappiamo l’incidenza di questa nel quadro generale, non ci sono azioni di tracciamento. In una parola, siamo esposti senza rete, perché non ci sono medici che possano monitorare la scuola e l’andamento dell’epidemia. L’azzeramento della sanità del territorio e l’inesistenza di organi territoriali di partecipazione dei diversi soggetti, ha reso impossibile progettare azioni mirate e chiare anche sul trasporto pubblico. Solo la diffusione del vaccino sarà a questo punto risolutiva per la riapertura in sicurezza delle scuole in tutto il Paese.
Il cono d’ombra del Covid
La scuola entra così nel cono d’ombra del Covid. E inizia a mostrarsi la ricaduta sociale del processo. Confinati nell’isolamento, schiacciati da una gestione securitaria della pandemia, privati della socialità che è energia primaria, i giovani manifestano segnali inquitetanti; rassegnazione e depressione sfociano in scatti di rivolta e ribellione, persino di aggressività e violenza. La socialità negata è persino ricercata in occasioni di scontro violento programmato; quasi a comunicarci, clamorosamente, che non si può sequestrare la gioventù. Cresce il numero dei suicidi, del ricorso ai farmaci; femminicidi, violenze e crisi domestiche iniziano a risalire in una curva inquietante. C’è un malessere che corre sul web e coinvolge migliaia di studenti e colpisce anche gli insegnanti. Abbandonata a se stessa, senza un governo centrale dei processi, in balia di una crisi istituzionale che sconquassa il fragile equilibrio fra potere centrale e regioni e ignora ogni rispetto della autonomia, la scuola tende a chiudersi in se stessa e rifluire nelle storie individuali.
E sarebbe drammatico che questa fosse la direzione di marcia dei prossimi mesi, perché questa volta c’è anche chi è già pronto a costruire sulle difficoltà della scuola pubblica o anche sul suo ritrarsi dalle dure sfide del presente, una nuova e rilevante presenza nella società. Non è l’aziendalismo liberista che abbiamo conosciuto o il rischio di privatizzazione talvolta evocato, a torto o ragione. No, c’è una parte della società civile (organizzata, con forti risorse finanziarie e simpatie politiche trasversali) che si mette in movimento con un approccio culturale talvolta aggressivo, per essere protagonista della funzione educativa nella società. A partire dai luoghi, dai territori, dalle domande di chi non ha più pazienza di attendere i cambiamenti che non arrivano. Di chi ha maturato una pessimistica convinzione sulla riformabilità del sistema di istruzione; che vuole avere voce in capitolo, senza deleghe. Non vedo ponti di sussidiarietà in costruzione ma sotterranei lavori di confinamento della scuola pubblica nei recinti inviolabili della istituzione burocratica, con i suoi tempi, i suoi schemi, la sua sperimentata e tranquillizzante autoreferenzialità coperta dalla tutela ministeriale.
Oltre quel recinto nascerà la scuola della società civile, animata da alleanze politiche e con risorse impazienti di essere utilizzate. Sarà un’operazione dirompente se sarà debole la risposta della scuola pubblica. Potrà essere di segno diverso solo se sarà la scuola pubblica ad assumersi la responsabilità dei cambiamenti necessari ed essere essa stessa protagonista primaria di una riprogettazione sul territorio.
Non basterà allora, come risposta, l’appello alla difesa della scuola pubblica se questo significherà ancora una volta una sostanziale riconferma della scuola che c’è. Il primato della scuola pubblica e dei suoi attori, questa volta, va conquistato sul campo, cercando di riaprire un processo partecipativo sui cambiamenti necessari e indifferibili e con una nuova determinazione innanzitutto di chi nella scuola lavora.
Su questo scenario si innesta l’imprevedibile e controversa realtà del governo Draghi. Spero che tutti abbiano compreso che questo governo nasce per un atto di responsabilità del Capo dello Stato; una scelta drammatica, pienamente costituzionale, certo, ma inspiegabile senza la comprensione della crisi della politica. Se non riparte un processo partecipativo al progetto del futuro del Paese, se non torniamo a scommettere sulle persone e sulla politica come risorsa per “uscirne insieme”, vorrà solo dire che non abbiamo capito l’appello drammatico che il Presidente ha rivolto non solo ai partiti ma a tutte le espressioni della società civile.
“Nulla sarà come prima”, abbiamo detto in molti, in questi mesi durissimi di pandemia. Spero non sia stato uno slogan; ad ogni modo, per chi non ne fosse ancora convinto, andrebbe precisato: quel pensiero vale anche per la scuola pubblica. E allora sarebbe tempo di iniziare, senza reticenze; questa volta i tempi non sono infiniti.
Dario Missaglia
5 marzo 2021