Non è semplice in poche righe, mettere a fuoco qualcuno degli effetti che la pandemia ha determinato sui minori stranieri e sui più fragili: quelle tante bambine e quei tanti bambini, ragazze e ragazzi che vivono in contesti deprivati e che costituiscono la maggior parte dell’utenza delle scuole periferiche o dei centri storici di alcune città dove più sono presenti larghe sacche di marginalità.
Certamente è su di loro che grava con maggiore tragicità l’onda lunga della pandemia secondaria e, in questo momento, ipotizzare aspetti e forme che assumerà il fenomeno, è difficile perché guardiamo ad un mondo che era già segnato da molteplici problemi e ritardi.
Forse qualche dato può metterci in condizione di capire la corposità del problema ed individuare alcuni dei motivi che lo alimentano. Sarebbe molto importante, se non urgente, tiralo fuori dall’isolamento e dalla disattenzione in cui versa.
Nell’a.s. 2018/2019, dai dati Istat e da fonti ministeriali disponibili, la presenza di alunne ed alunni non italiani nelle nostre scuole era stimata in più di 850mila unità, dall’infanzia alla secondaria di secondo grado, ben il 10% del totale degli iscritti. Eravamo già alla soglia simbolica dei 10, tra alunne ed alunni, con background migratorio ogni 100 (dati Rapporto ISMU 2021).
Di contro il numero degli autoctoni dal 2017 al 2019 decrementa di oltre 100mila unità. Dai dati ancora più recenti emerge un calo demografico delle nate e dei nati italiani crescente, mentre il numero delle presenze straniere resta stabile, per quanto oggi, dopo due anni di pandemia e di crisi economica, la povertà assoluta colpisca maggiormente le famiglie disagiate e quelle straniere in modo ancor più significativo per cui occorrerà aspettare nuove rilevazioni per capire in che modo i flussi e le natalità subiranno delle modifiche.
In ogni caso i numeri fin qui emersi sono importanti e ci fanno comprendere come nelle nostre aule la presenza non italiana alimenta in misura cospicua il numero complessivo degli alunni, permette alle scuole di sopravvivere a tagli di dimensionamento e dà corpo agli organici che esistono se esiste qualcuno a cui insegnare qualcosa e di cui prendersi cura.
Dalle rilevazioni ministeriali quasi ¾ delle scuole italiane sono già alla soglia del 30% dell’utenza straniera diversamente distribuita dalle scuole d’infanzia dove la percentuale è dell’11,04% alle secondaria di secondo grado dove il dato cala drasticamente al 7,4%.
È bene sottolineare che i dati su alunne e alunni non italiani non si riferiscono semplicemente a coloro che sono arrivati di recente nel nostro paese ma raccolgono una vasta platea di nati in Italia che, come sappiamo, nonostante il suolo, restano cittadini stranieri almeno fino alla maggiore età dove le norme attuali concedono, a certe condizioni, delle possibilità di acquisizione di cittadinanza. Non mi soffermo su queste normative perché sono di natura complessa oltre che non sempre lineare ed anche perché non è l’oggetto della mia riflessione attuale. Però una qualche osservazione, dal punto di vista culturale, va compiuta.
Anche chi nasce in Italia porta con sé la cultura dei paesi d’origine di entrambi o di uno dei genitori: certo poco conosce quei paesi ma in famiglia la cultura d’origine viene salvaguardata e spessissimo anche la lingua. Si tratta di una difesa identitaria melanconica o integralista, dipende dai casi, di fatto però la coesistenza di culture talvolta assai distanti apre contraddizioni interiori e di comportamento sociale su cui bisognerebbe interrogarsi. Certamente non esistono culture monolitiche e le contaminazioni sono continue, alimentano e trasformano modi di pensare ed usi ma non sempre sono indolori, specie sui minori.
Ricordo che nella mia esperienza scolastica non una volta ho seguito con apprensione e con il carico di responsabilità di una preside le vicende di ragazze musulmane che volevano adeguarsi alle nostre consuetudini o che frequentavano con eccessiva continuità ragazze e ragazzi occidentali o che si innamoravano di ragazzi italiani. Chi non ha seguito i tanti casi di cronaca che hanno animato anche parecchi talk? Dove spesso si banalizzano difficoltà di integrazione o si sorvola su questioni di altissima complessità? Restiamo ben saldi, si capisce, sulla più risoluta condanna del fenomeno delle spose bambine che riguarda, in vero, anche i ragazzi o sull’aberrazione dell’omicidio, però, ribadisco, questi sono temi di estrema delicatezza su cui analisi e riflessioni non possono risolversi in poche battute nette e taglienti. No, non è facile per niente.
Un passo indietro per riprendere il filo iniziale. L’ultima percentuale dei frequentanti le scuole secondarie di secondo grado è un dato spalmato soprattutto tra professionali, prima e tecnici dopo. In ultimo i Licei dove la presenza dei non italiani è molto limitata. Non penso di dover commentare il dato perché parla da solo. Intanto il fenomeno della dispersione scolastica e dell’insuccesso colpisce in modo netto e con percentuali abnormi i non italiani ed in alcune regioni peggio che altrove, bisogna però evidenziare che proprio al Sud, dove il fenomeno è più intenso, le situazioni di marginalità e di povertà assoluta sono ben più diffuse che in altre parti del paese, pertanto il dato assoluto in sé significa poco se non lo si contestualizza. Il fatto poi che ragazze e ragazzi non italiani si trovino poco o pochissimo nei Licei deve dirci qualcosa su come le scuole lavorano in termini di orientamento, prima di altro.
Un esempio a latere: se si guarda ai cosiddetti Nuovi Arrivati in Italia (N.A.I) difficilmente le scuole rispettano, nel loro inserimento, il dato anagrafico ed il loro corso di studi, i dati percentuali ci dicono che le classi sono almeno 1 o 2 anni inferiori. Non c’è da giudicare perentoriamente: spesso la scarsa conoscenza della lingua italiana induce le scuole ad optare per un recupero di anni. Si potrebbe fare di più e meglio, certo. Per esempio, dei corsi di supporto pomeridiani o altre azioni di accompagnamento ma qui entriamo in un altro settore di crisi perenne: risorse umane e finanziarie, giusto per dirne una.
Se invece guardiamo ai dati di insuccesso scolastico complessivo, i non italiani fanno il paio con alunne ed alunni in condizioni di disagio economico. La scuola ogni anno perde per strada centinaia di ragazze e ragazzi specie nel passaggio tra scuola media di primo grado e secondaria di secondo grado dove poi calerà la scure delle bocciature dopo il primo biennio.
Proviamo adesso a fare un altro breve ragionamento: a cosa serve la scuola per i più disagiati?
Certamente per tentare una mobilità sociale che al momento nel nostro paese è ferma ai blocchi di partenza, per i non italiani ad imparare la lingua del paese ospitante, tanto per cominciare, ma come per tutti l’identità si costruisce nella relazione con l’altro e con la vita. Se queste condizioni vengono meno è di tutta evidenza che il contraccolpo sarà durissimo. Se in contesti familiari di media condizioni economiche la mancanza di vita sociale ha creato nei bambini e nelle bambine, nelle adolescenti e nei loro coetanei maschi dei disturbi del comportamento sociale e nella crescita identitaria si può facilmente immaginare cosa succeda in contesti familiari già segnati da povertà e marginalità.
In situazioni di medietà sociale ed economica la presenza di mezzi e strumenti tecnologici ha in un qualche modo assicurato una sorta di continuità didattica, certamente sulla qualità di questa relazione educativa ci sarebbe molto da dire ma s’è già ampiamente compreso che a fronte di esperienze ammirevoli di rielaborazione c’è stata anche tanta continuità della tradizionale lezione frontale mediata da un video.
Certamente ciò che ha maggiormente alimentato il malessere è comunque la mancanza di relazione tra pari ed il supporto presente della scuola.
In situazioni di marginalità parlare di presenza di strumenti e mezzi tecnologici va da sé che è quasi una contraddizione in termini. Per carità, esistono scuole che si sono fatte in quattro per acquistare tablet, docenti e dirigenti che hanno dato fondo alle risorse mentali e di cassa per venire in soccorso, tuttavia coprire le esigenze di una fetta di popolazione di quasi 900mila unità ben si comprende che non è possibile, nonostante ogni buona volontà e sforzo.
Dobbiamo fermarci a riflettere su cosa possa significare per bambine e bambini o ragazze e ragazzi già a forte rischio di dispersione scolastica perdere quell’unica occasione di incontro e confronto quotidiano, che contraccolpi si possano subire quando in famiglia anche un unico lavoro, per quanto irregolare esso sia, si perde, quando già esisteva la difficoltà del vivere quotidiano, in due parole.
Ipotizzo, in base alla mia esperienza di tanti anni nei quartieri popolari, alcune conseguenze possibili.
Il ritiro a casa e la consegna ai lavori domestici ed alla cura dei fratelli più piccoli per le ragazze, la ricerca di lavoretti a nero, casuali e mal pagati; per i maschi occorre tenere sempre gli occhi ben aperti perché la criminalità in genere se ne avvale con frequenza. Di pochi giorni addietro il caso dei piccoli corrieri della droga, bambini, giusto per citare qualcosa di recente. Per tutte e tutti, indifferentemente il processo di crescita della dimensione individuale e sociale, viene fortemente compromesso. Non c’è dubbio alcuno che crescano aggressività e/o fenomeni depressivi anche se queste ragazze e questi ragazzi sono molto più temprati alle difficoltà del vivere quotidiano rispetto ai coetanei che vivono in condizioni socioeconomiche meno difficili, spesso l’abitudine alla difficoltà è la loro cifra.
Quali sarebbero le emergenze educative adesso? Ricordiamoci che parliamo di una larga fetta di popolazione scolastica che era in crisi da prima della tempesta pandemica e dunque porla all’attenzione significa ripescare cosa già non andava prima e che ora è peggiorato.
Per economia di discorso tralascio la questione della mancanza di politiche migratorie e di integrazione serie nel nostro paese e tralascio anche le mie considerazioni sul tipo di attenzione che i vari governi hanno avuto per queste cittadine e cittadini: penso si deduca facilmente guardando alla divaricazione della forbice economica e sociale o ai tassi crescenti di povertà assoluta. Generalmente gli interventi sono appannaggio dell’associazionismo e del volontariato, pare che tanto basti a molti politici ed a molti di noi che restiamo indifferenti e guardiamo altrove.
Tra l’altro, parrebbe, ultimamente, che stiamo andando in via di deroga per la gestione di queste realtà che hanno valore collettivo, ad enclave di comunità anche lodevoli, a Patti che mettono in rete scuole, associazioni, enti locali ed altri: esperienze valide, per carità, anche parecchio, ma vi sarebbe da dire che in questo modo, a parte spingere verso processi di autonomia differenziata, forse senza averne piena consapevolezza, si consente alla politica di nicchiare e non farsi carico di tanta utenza disagiata. C’è… sta lì… qualcuno ne avrà cura.
Troppi i ritardi della scuola italiana, e su troppi fronti. Tanti anni a ripetere la stessa manfrina che la scuola è l’asse di una società democratica, per poi accorgersi che gli investimenti e la scommessa educativa restano invariate o quasi. Diverse realtà virtuose per quanto non a sistema e nessun intervento radicale e collettivo che interessi tutta la scuola di tutti i territori del paese Italia capace di offrire pari opportunità.
Mi chiedo, pensando alle tante bambine e ai tanti bambini non italiani, alle tante ragazze e ragazzi di altra cultura, dove sono i curricula interculturali? Quante scuole in Italia scommettono sulla didattica inter e transculturale? Perché l’integrazione rimane sempre collaterale al curriculo e non esistono per esempio percorsi di apprendimento che mettano a confronto patrimoni culturali diversi? Perché non esistono se non in rarissimi casi? Forse abbiamo paura di un confronto aperto per quanto difficile o siamo troppo abituati a ripetere e ripeterci sino alla noia?
Fuori dalla pandemia, e si spera presto, recuperare questo mondo di disagio e debolezza sarà ancora più complicato di quando l’avevamo sotto il naso e lo chiudevamo nei BES o in altri acronimi similari. Servono investimenti seri sulla formazione, consistenti sull’edilizia, continui per l’utenza, tutta. Non servono i progetti collaterali per le aree a rischio, non si può né si deve investire soltanto per le realtà virtuose dimenticando l’intera istituzione scuola. Serve una rigenerazione dei percorsi di insegnamento/apprendimento, la collaborazione dei pedagogisti, l’ascolto e l’attenzione dei bisogni da qualunque parte provengano.
Certo è complicato ma se dobbiamo dare sostanza alle parole che la scuola è l’asse della nostra società non vedo altre vie. Ci vuole tanto impegno e competenza, dedizione. Chi ha l’onere e il privilegio di formare lo sa benissimo. Ci vogliono scelte di campo coraggiose che hanno sempre valore culturale e politico.
Eliana Romano, Presidente Proteo Fare Sapere Sicilia e Palermo