Associazione professionale Proteo Fare Sapere
07 marzo 2023

L’8 marzo delle donne migranti – di Eliana Romano, presidente Proteo Fare Sapere Sicilia e Palermo, con la presentazione di Dario Missaglia, presidente nazionale Proteo Fare Sapere

 

Tra dramma, speranza e impegni non rinviabili

In occasione di questo 8 marzo 2023 non potevamo che pensare a loro: le donne migranti di Cutro come simbolo universale del dolore immenso di una umanità che in troppe parti del mondo ci inchioda di fronte all’ingiustizia, allo sfruttamento, la disperazione, la ricerca di un futuro.
Proprio in questi giorni la magistratura dovrà accertare se nel dramma di tante morti di Cutro, vi siano responsabilità di membri del governo o delle istituzioni preposte alla sicurezza. Già il fatto in sé evidenzia la gravità della tragedia più volte evocata in questi giorni dal Presidente Mattarella. Ma al di là di questo, nelle parole di un Ministro sprovveduto si è rispecchiata tutta l’inadeguatezza e la povertà culturale di un Governo il cui obiettivo, sul tema immigrazione, è alzare muri, proteggere i confini, impedire le partenze, bloccare i processi migratori. Un coacervo di sconcertanti brutalità e banalità, una rassegna volutamente agitata delle paure inconsce (l’incubo dell’invasione, la minaccia dello straniero, il rischio sanitario, ecc.) che non riescono ad essere compensate dalla comunicazione più in apparenza mite, pragmatica e dal volto femminile, della Presidente del Consiglio.
Giusta ed importante la reazione del vasto arcipelago di forze sociali, politiche, della società civile e del volontariato, laico e cattolico, che denuncia questa politica inaccettabile. Ma non basta. Da anni questo Paese è privo di una vera politica dell’immigrazione che non è solo gestione dei processi in atto, coinvolgimento più deciso della Comunità europea, relazioni internazionali con i Paesi delle aree di crisi.
Politica dell’immigrazione è anche avere idee chiare e progetti concreti per la gestione delle persone che restano nel nostro Paese per un determinato tempo. E dunque politiche non solo di accoglienza (abitativa, sanitaria, ecc.) ma anche di formazione, apprendimento della lingua italiana e lavoro. L’alternativa a questo è il rischio di una politica compassionevole, caritatevole ancorché costosa, in cui l’immigrato è accolto in quanto “debole” da assistere e non come persona che deve in primo luogo trovare le condizioni per poter essere riconosciuto e apprezzato per ciò che potrà fare per realizzare se stesso ed essere riconosciuto socialmente nel nostro Paese.
Se gli immigrati restano agli angoli delle strade è perché in quella condizione ce li confiniamo noi con l’assenza di una vera politica per l’immigrazione, ce li confiniamo noi, delegando questa operazione alle più svariate associazioni, perché è più semplice e tutto sommato più comodo, infatti non mette in discussione l’assetto dato. Ma è un disastro sociale ed umano.
La destra non metterà mai mano a questa politica. La speranza è che questa consapevolezza maturi nell’ambito della sinistra più ampia. Quella che abbiamo visto nella meravigliosa piazza antifascista di Firenze il 4 marzo. Ho personalmente espresso a Francesco Sinopoli tutto il mio apprezzamento per la determinazione e la passione con cui ha perseguito un obiettivo difficile e non scontato. La testimonianza unitaria del sindacalismo confederale della scuola, una sinistra ampia che si ritrova con la Cgil e su un tema di enorme importanza come la scuola e il futuro delle nuove generazioni. Evento di grande rilievo politico generale.
Vogliamo che il 4 marzo 2023 venga ricordato come una nuova speranza per questo Paese e per tutte le donne, a partire dalle donne migranti. E ora che la speranza si trasformi presto in azione politica, in proposte, in progetti da attivare a partire da quelle comunità locali in cui ciò può essere possibile.
Diamo speranza concreta al futuro, in questo 8 marzo da non dimenticare.
Le riflessioni profonde che Eliana Romano, Presidente di Proteo Fare Sapere Sicilia e Palermo e animatrice di un grande impegno in tutta la Sicilia, ci offre con il suo scritto, sono una vera testimonianza di un impegno che non si ferma ai buoni sentimenti ma scandaglia la profondità dei processi che dobbiamo apprendere. Un esame insieme intellettuale, etico e politico di una grande e complessa questione del nostro tempo.
Abitare questa complessità è il nostro impegno.    

Dario Missaglia
Presidente nazionale Proteo Fare Sapere

  

L’8 marzo delle donne migranti 

La giornata dell’8 marzo mobilita sempre gran parte delle donne, soprattutto quelle che difendono questa data, individuata dalle Nazioni Unite nel 1975 come giornata mondiale, da un lento declino che mina alle radici un’occasione di incontro e riflessione, trasformandola, trasfigurandola, nei fatti, in un’occasione di altro tipo, commercialmente sollecitata.  Ennesima perdita di senso e significato di tanti altri “momenti” di rilevanza collettiva, sempre più spesso sacrificati sull’altare del consumismo o costretti in retorici cerimoniali.
Guardando le statistiche, semplici numeri, e non opinioni, troviamo per esempio, un paese ancora altamente sperequato nel trattamento economico e salariale, nelle reali pari opportunità esistenti tra i due generi. Tra gli ultimi dati diffusi da E.I.G.E ¹sull’uguaglianza di genere nel 2021, l’Italia è ferma al quattordicesimo posto tra paesi membri dell’UE.  
Lo squilibrio tra uomini e donne rimane una costante, sebbene con indici diversi, a seconda degli ambiti di osservazione presi in esame.
E pensando che ancora oggi, nella quotidianità, la semplice regola linguistica che imporrebbe l’uso del maschile e del femminile e non il ricorso ad un opaco plurale neutro, ancorché scorretto, in origine, quando non riferito a realtà non animate, si è tradotta, per politically correct, nell’abominio grammaticale di asterischi o puntini di sospensione, capiamo subito quale livello di crescita culturale ed umana abbiamo maturato.
Non credo occorra scomodare Vygotskij per riflettere su quella relazione generativa che annoda, quasi, la lingua ed il pensiero. È evidente che se “qualcosa” non è nominata non è pensata. Temo, tristemente, che la questione del rapporto altamente sbilanciato tra maschi e femmine, risultato di una cultura patriarcale atavica e ben radicata, si risolva a tanti livelli, inclusi quelli della più illuminata intellighenzia del nostro paese, nella riflessione sull’emergenza della violenza dei maschi sulle femmine o negli interventi sui femminicidi che, però, costituiscono la punta di un iceberg molto più profondo ed articolato.
Questi pochi tratti, davvero essenziali, sono più che sufficienti per dar conto del quadro di arretratezza culturale ed umana del nostro Occidente civilizzato.
Se le donne, in questo Occidente, fanno una gran fatica per esserci come soggetti che hanno diritto di autonomia di pensiero e di azione, dotate di corpi costantemente sott’attacco, vettori di identità sessuale e biologica definita, esistono realtà femminili negate, oltraggiate, mutilate. Donne vendute come schiave e sotto ricatto, donne madri negate, donne che lavorano quattro volte di più degli uomini o che vengono relegate in quattro mura, coperte e segregate.
È a queste donne che vorrei dedicare qualche riflessione, a tutte quelle che, diversamente da me, hanno dovuto lasciare la loro terra, i loro figli e la loro casa, oppure quelle che hanno venduto fino all’ultimo avere disponibile per consentire che un figlio o una figlia, anche minore, tentasse di vivere, in modo dignitoso, in un altro paese. Poi qualcuno di loro è arrivato e qualcun altro no.
Poche parole, rispetto a quelle che meriterebbero, affinché almeno esistano. Penso e nomino donne che attraversano il mare ammassate sottocoperta, con la pelle corrosa dai fumi del gasolio, che ansimanti stringono a sé dei ragazzini appena nati o di pochissimi anni. In particolare, nomino quella madre stremata, sull’imbarcazione che pochi giorni fa si è schiantata su una secca, a pochi metri dalla terra promessa, Cutro. Il piccolo le sfugge dalle braccia, sfinite, e dopo un po’ lo raggiunge, anche lei cadavere, sott’acqua.
Non c’è alcun dubbio che di fronte a questi crimini tutte e tutti siamo responsabili. Non c’è discussione nel merito.
Le donne che migrano, che non sanno pressocché nulla dell’8 marzo occidentale, e che probabilmente poco le interessa, arrivano da diversi paesi ed hanno caratteristiche culturali e tradizioni differenti. Conosciamo bene quelle che arrivano dall’Europa dell’Est, che nel nostro paese si prendono cura dei nostri anziani e delle nostre case, poi ci sono quelle che arrivano dai paesi asiatici e poi le africane. Quasi tutte unite dal comune desiderio e dalla speranza di una vita dignitosa e moltissime di loro, se non hanno la famiglia al seguito o se non sono in Italia per ricongiungimento ai propri familiari, hanno un unico anelito: lavorare onestamente, mettere da parte dei risparmi e ricominciare una nuova vita possibilmente nei loro paesi d’origine se non riescono altrove.  Un po’ per scelta e un po’ per lavoro, ho ascoltato i loro racconti e condiviso quelle speranze. Certamente per me è stato più facile capire il mondo dell’est europeo che, tutto sommato, non è distante dalla mia cultura o dal mio credo. Così come è più semplice comprendere la donna ucraina, che da anni sostiene devotamente, direi, una mia familiare, cogliere le sue preoccupazioni di madre lontana dal suo paese per quei figli che sono rimasti li a combattere una guerra, incomprensibile, in cui anch’io, cittadina di un paese che manda armi, e quindi cobelligerante, sono coinvolta. Mio malgrado. E non mi soffermo su cosa sia giusto o sbagliato. Difficile, anche troppo, per chi ritiene, come pensava Gino Strada, che possa esistere una sola guerra, quella “per combattere la guerra”.
Le donne asiatiche arrivano generalmente dalle Isole Filippine e dallo Sri Lanka. Almeno a Palermo, città in cui vivo, sono tra le donne di più antica immigrazione. Molte di loro sono rimaste ed hanno fatto in modo che i loro familiari le raggiungessero. Hanno ricostruito qui la loro vita sfuggendo a terre splendide, per i turisti, che versano in condizioni di miseria e sottosviluppo croniche. Chiaro che in ogni paese e regione del mondo esistono gruppi assai ristretti di molto ricchi e gruppi molto più grandi di estremamente poveri. Sono caratteristiche proprie di tantissimi paesi, dall’America Latina all’estremo Oriente, per non parlare dei paesi africani. Caratteristiche che fino a qualche decennio addietro non costituivano il principale tratto distintivo di molti paesi europei; tuttavia, con la globalizzazione ed un capitalismo sfrenato, i tassi di povertà sono aumentati un po’ ovunque. Nel nostro paese certamente in modo assai significativo. Secondo il Rapporto Censis del dicembre 2022, la percentuale di italiani in condizione di povertà assoluta è pari al 9,6% della popolazione (1 ogni 12). Naturalmente questa percentuale è diversamente distribuita sul territorio nazionale e le condizioni di cui stiamo discutendo piagano maggiormente il Sud Italia.
Sono dati preoccupanti che confliggono con tanti dei proclami e dichiarazioni di intenti dei nostri governanti ma su cui si è giocata, e si gioca ancora, una sordida partita di politica elettorale per la quale un paese, in cui tanti italiani stanno male, di certo non può accogliere migranti, che vanno aiutati a casa loro, magari nelle galere libiche o respingendoli nei paesi da cui stanno fuggendo. Su questo assunto si è costruito un comune sentire, abbietto e velenoso, che trova terreno fertilissimo in una condizione diffusa di ignoranza ed analfabetismo di ritorno, in uno stato di costante fragilità in cui si tiene la scuola pubblica deprivandola di credibilità e di progetti di crescita di lungo respiro, per esempio.
Torno alle migranti perché, come scrivevo poco sopra, parlarne per me significa farle esistere e pensarle, significa poter dare un contributo piccolissimo a questa massa di donne che non conoscono le fragilità “emotive” di moltissime donne occidentali né i loro vezzi. Che lavorano, spesso senza conoscere fatica, che accettano, per salvaguardare figlie e figli, condizioni familiari di supremazia maschile o di segregazione, per noi impensabili ed inaccettabili. Che diventano, loro malgrado, anche complici di culture ataviche che hanno del barbaro e disumano. E con questo penso a Saman la ragazzina pakistana sacrificata in nome di una cultura patriarcale terribile.
Non posso non pensare, nominando, le tante donne della mia città: pakistane, indiane, marocchine, che spesso si muovono coperte, quasi nascoste nei loro abaya, indumento più consono ad una donna adulta[²]. Ho seguito per anni i loro figli e figlie, da educatrice di quartiere, prima, poi da docente e poi da dirigente. Donne che volutamente restano regalate a parlare la lingua dei loro paesi d’origine: in casa crescono nidiate di bambine e bambini; ragazzi e ragazze che poi popoleranno le nostre scuole e ci consentiranno di non chiuderle o di vederle accorpate ad altri istituti. Scuole in cui questa massa di parlanti una doppia lingua incontreranno una cultura lontana da quella delle loro famiglie, e spesso saranno dilaniati tra due mondi, tra cui non vorrebbero scegliere. Bambine e bambini che riempiono le classi delle scuole italiane e soprattutto i bambini, se tutto va bene, potranno proseguire gli studi, le bambine sono spesso destinate ad altra vita. Sono le tante spose bambine su cui abbiamo ragionato e lavorato, anche con sensibili assessore locali ed accorte procure dei minori, ma che alla fine non siamo riuscite a sottrarre ad una cultura lontana da noi anni luce. E su questa vicenda delle bambine sarebbe opportuno sapere che in realtà anche i ragazzi vengono legati a promesse con ragazze della terra d’origine, caso meno frequente e conosciuto ma assolutamente possibile.
È chiaro che il dialogo con queste culture costa fatica e trovare una via di incontro, che vada oltre il dovuto rispetto loro richiesto delle nostre regole di funzionamento e organizzazione civile, comporterebbe ben altre riflessioni ed azioni proprio a partire dalle scuole. Ma resta lì, come dato acquisito di diversità esistente che oscilla tra assimilazione ed esclusione, tra tolleranza e buonismo spicciolo. Difficile integrare secondo principi e prassi di reciprocità e democrazia. Difficile, se non impossibile, in un periodo storico in cui l’identità nazionale, regionale, cittadina e locale sono preoccupazione e meta delle azioni politiche.
E proprio non riesco a vedere spiragli per aprire un ragionamento di senso compiuto in un paese in cui anche il semplice jus scholae è in perenne discussione e lo jus soli resta un’utopia. Non mi pare che l’attuale compagine di governo abbia questo genere di interesse, neanche un po’. Tuttavia, questo non ha fermato e non ferma l’impegno di tante e tanti di buona volontà che vorrebbero un mondo umano più che identitario. Al momento occorre guardare e valorizzare i processi che si innescano, per i risultati bisognerà aspettare. Il raccolto è frutto di lavoro duro e paziente oltre che di accurata semina. Penso ai nipoti e ai pronipoti con fiducia.
Penso a quei piccoli, grandissimi successi, di integrazione riuscita, direi nella felice comunione tra culture, mescolate e rinnovate in altro, di più grande e completo.  E il mio pensiero corre a F.E., alunna marocchina esempio di studio impegnato, che ha conquistato vette universitarie in Francia dedicandosi al diritto internazionale per la cura dei migranti, o D.D. rimasto in città a lavorare con chi arriva dall’Africa, o ancora alla piccola J.T., ben ancorata alle sue tradizioni srilankesi, che si muove con disinvoltura e sicurezza nel mondo della danza etnica.
Tante donne ancora vorrei pensare e nominare: le afghane e le iraniane, che danno esempio a noi tutte, le siriane in perenne migrazione e tutte quelle donne vittime di stupri di guerra. Penso che tra gli ascolti più duri, della mia piccola esperienza umana, le mutilazioni subite e gli stupri costituiscano l’indicibile. A queste donne non posso dedicare alcuna parola, nessuna potrebbe nemmeno lontanamente render loro giustizia. Posso e possiamo combattere, donne e uomini insieme. Qui parliamo di crimini contro il genere umano ed i sessi scolorano del tutto. Proprio le scuole, ancora una volta, dovrebbero accendere costantemente le luci su questi crimini, profittare dell’educazione alla cittadinanza per dirne una. La scuola ha una funzione se guarda e si apre al mondo, se prepara a capirlo e a renderlo un posto migliore. In caso contrario perde l’obiettivo del suo esistere: formare cittadine e cittadini consapevoli ed autonomi.
Nell’indicibile, volutamente lasciato in chiusura, le donne africane, e fra queste le giovani nigeriane. Ricordo che la Camera del Lavoro della città metropolitana di Palermo, qualche anno addietro mi chiese se avessi voluto aprire i locali della scuola, che allora dirigevo, ad un’iniziativa di incontro della comunità nigeriana. Accolsi l’iniziativa con entusiasmo, del resto mi interesso e seguo le questioni delle migranti e dei migranti da anni e poi trattavasi di collaborare con il sindacato di cui faccio parte. A Palermo la comunità nigeriana è ben radicata in uno dei quartieri storici più conosciuti, ed è tristemente nota per la cellula di Black Axe, una delle consorterie mafiose nigeriane tra le più agguerrite (poi fortunatamente molto ridimensionata dalle azioni capillari delle forze dello stato). Il contatto diretto e prolungato con quella realtà fu una rivelazione dell’enorme distanza culturale fra i nostri modi di essere e pensare.  Fu un’occasione che mi diede modo di capire, davvero e nel profondo, i lunghi silenzi di alcune alunne nigeriane, quasi meteore che passarono in istituto. Frequentavano i corsi serali e per poter parlare con loro mi trattenevo fino a sera. Non era facile colloquiare, sembravano quasi muri in cemento armato, muri silenti che mi trasmettevano un dolore intenso.
Non posso e non voglio approfondire quelle storie; per me si strappò di colpo un velo su una realtà terrificante. La tratta delle nigeriane è ben nota ad alcune associazioni che operano in città, splendide nel loro impegno civile e sociale. Umani, di sesso maschile e femminile, dediti all’affrancamento di queste schiave del sesso delle nostre società. Le schiave dei marciapiedi di notte, quelle ricattate dalle mafie dei loro paesi, schiavizzate con credenze arcaiche e riti Ju-Ju. L’elenco delle donne martirizzate è davvero lungo, parlarne e conoscerne almeno in minima parte la storia e testimoniarne l’esistenza è, in qualche modo, rendere omaggio ad un’umanità e ad una sessualità, negate.
Si capisce bene, adesso, come l’8 marzo non significhi la medesima cosa o abbia il medesimo senso per tutte le donne.
Per me, donna occidentale, con una vita tutto sommato agiata, che è riuscita a costruirsi una discreta cultura, significa tanto. Sono anche i ricordi delle rivendicazioni degli anni ’70 e le tante speranze di un’intera generazione di donne e di quelle che seguirono. Mai allora avrei pensato che un giorno mi sarei trovata di fronte a realtà così difficili e spesso crude, immersa e talvolta dispersa, in un mondo di donne, bambine, ragazze tanto diverse. Ma a questa fetta di umanità, ultima tra le ultime, ho voluto guardare e mentre cercavo la via più giusta per educare e formare, sono cresciuta.
Da queste donne ho imparato ed imparo, comprendo il senso del possibile e del reale, mi confronto anche per capire il mondo che mi circonda.
A tutte loro, alle loro speranze, ai loro riscatti, a quei sogni che ancora possono sognare, dedico il mio 8 marzo.
Per me l’auspicio che su queste realtà le luci restino costantemente accese, che coloro che scelgono di educare, formare, insegnare riflettano e studino, ricostruiscano l’azione della scuola non tralasciando mai questa umanità a colori che ha necessità e bisogni particolari su cui tanto deve ancora dirsi e farsi.

Eliana Romano
Pesidente Proteo Fare Sapere Sicilia e Palermo

 

 

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[1] European Institute for Gender Equality, Rapporto sull’uguaglianza di genere anno 2021

[2] Sono le giovani che più spesso avvolgono il capo col hijab che lascia vedere la bellezza dei loro giovani volti; le nate in Italia tendono a non usarlo affatto