La pandemia provocata dal nuovo virus SARS-CoV-2 ha mostrato all’umanità intera come la Terra sia un macrorganismo vivente in cui tutto si tiene: biologia, ecologia, economia, istituzioni sociali, giuridiche e politiche. Ma ancora molti – troppi! – resistono a voler prendere atto che malattie nuove e terribili, sempre più frequenti (Ebola, HIV, influenza suina e aviaria, afta, febbre gialla, dengue ecc.), sono la conseguenza dell’alterazione dei delicati equilibri naturali tra le differenti specie viventi e i loro relativi habitat, provocata da un sistema economico che, in nome di un illimitato sviluppo, sfrutta e fa scempio di ogni risorsa ambientale. Il mirabile libro di David Quammen, Spillover, ne dà la più evidente (e accessibile) spiegazione scientifica. Ne consegue che aspettative e previsioni per il dopo-emergenza sono tutt’altro che univoche: si va dallo “speriamo che si possa tornare al più presto alla normalità” al “nulla sarà più come prima”. Chi invoca il ritorno alla “normalità” (vale a dire al mondo pre-pandemia) tende in genere a proporre una narrazione degli eventi in cui il diffondersi del virus viene trattato alla stregua di un flagello improvviso e inatteso, con tanto di terminologia bellica: il “nemico invisibile” da combattere e sconfiggere, ovviamente con adeguate “armi” e vigorose “battaglie”, che – manco a dirlo – richiedono “eroi” disposti a sacrificare anche la vita. E sarebbe già tanto se l’adozione di questo linguaggio servisse a ricordare a tutti che, intanto, ci sono guerre, quelle vere, che continuano a insanguinare il pianeta, impegnando risorse ingenti (che sarebbero tanto più preziose per ben altri scopi, in questo momento) per la costruzione e l’acquisizione di mostruosi strumenti di guerra, dai bombardieri F35 ai sottomarini U-212. Peraltro, chi afferma che “nulla sarà più come prima”, pur riuscendo spesso a immaginare gli effetti – soprattutto economici – della pandemia, ancora stenta a definire, almeno per linee generali, un “progetto di mondo e di società” da costruire o ri-costruire quando finalmente sulla tragedia sarà calato il sipario. È del tutto evidente che le ripercussioni del lockdown sull’economia globalizzata porteranno a una crisi senza precedenti con effetti catastrofici specie tra i soggetti più poveri e tra i precari, perché è vero che le pandemie non conoscono differenze di classe, ma è altrettanto vero che i loro effetti portano ad accentuare ancor di più le disuguaglianze e le ingiustizie sociali.
Nel richiamo costante alle responsabilità individuali, si è detto “siamo tutti sulla stessa barca”, dimenticando o sottovalutando che ogni catastrofe amplia e moltiplica le disuguaglianze: la casa in cui trascorrere la quarantena, per molti è poco più di una prigione o addirittura non esiste; c’è chi ha la nausea da streaming e chi non ha neppure una connessione. In ogni caso, ammesso che funzionino gli interventi economici e di solidarietà per far fronte all’emergenza, non basterà inondare il mondo con una pioggia di denaro “a debito”. Bisognerà che quel denaro serva effettivamente ad avviare una profonda conversione ecologica e solidale degli apparati produttivi e dei consumi. Se, dunque, vogliamo trarre qualche insegnamento dalla tragedia della pandemia, diventa ineludibile trasformare alla radice – in base a principi di equità e sostenibilità – il sistema socioeconomico dominante, i cui paradigmi stanno mostrando tutta la loro carica distruttiva e autodistruttiva.
Lo scenario prossimo venturo, di recessione globale, coinvolgerà, comunque, non soltanto la sfera economica, ma anche quella sociale, quella culturale, quella politica. Va messo in discussione il nostro rapporto (individuale e collettivo) col mondo, va riconsiderata la relazione tra l’umano e il vivente non-umano negli ecosistemi. Va, dunque, acquisita la consapevolezza che molte delle forme di pensiero e degli stili di vita che abbiamo sperimentato finora si riveleranno inadeguati al “mondo nuovo”: potremo anche “vincere la battaglia” (auguriamocelo), ma questa pandemia non è una “malaugurata parentesi” da chiudere il più velocemente possibile; analoghi flagelli saremo destinati ad affrontarli di nuovo e di nuovo se non assumeremo come premessa del nostro agire la fragilità e la complessità del mondo, cambiando radicalmente il modo in cui lo abitiamo.
Dev’essere, pertanto, collocata a questo livello ogni possibile e necessaria riflessione sui cambiamenti da introdurre nelle istituzioni, nella politica in generale e nelle politiche di settore in particolare. A cominciare da quelle relative a beni comuni (forse meglio: beni pubblici globali) come la salute e la conoscenza.
Nella risposta all’epidemia di coronavirus nei Paesi più coinvolti, un ruolo chiave è stato svolto dal sistema della sanità pubblica. Un sistema che si fonda su una visione della salute come diritto fondamentale che dev’essere assicurato dallo Stato attraverso la fornitura di servizi pubblici universali, pensati fuori dalle logiche di mercato. Questo modello non riguarda solo la sanità, ma tutto il welfare state, compresa quindi la scuola (meglio: il diritto costituzionale all’istruzione). Diventa centrale, dunque, la questione dello Stato, della sua riforma e della sua direzione, nonché quella di scelte politiche che impattano sui rapporti sociali, sull’economia, sul modo di vivere dei cittadini.
Una politica di welfare per il “mondo nuovo” dovrebbe assumere come parola-chiave il termine “cura” e declinarlo in funzione:
1. della cura del mondo (cioè tutela dei beni e delle risorse ambientali)
2. della cura della persona umana (con i relativi diritti alla salute e all’istruzione).
Bisognerebbe, pur in una fase convulsa ed emergenziale come l’attuale, impegnarsi comunque a ragionare e a programmare sul breve, sul medio e sul lungo periodo. Con una raccomandazione agli economisti (a quelli, in particolare, che ci ricordano ossessivamente i “vincoli” del debito pubblico): abbiate il buon senso di far rientrare finalmente tutta la spesa (non solo quella per infrastrutture) destinata a salute e istruzione sotto la voce “investimenti”. Tento qui di sperimentare questo tipo di approccio sul terreno della scuola.
L’urgenza è data dalla necessità di una ripresa adeguata, a settembre, delle attività didattiche. Abbiamo quattro mesi di tempo per non arrivare impreparati a quella scadenza. Sarà necessario ripensare e riprogrammare tempi, spazi e modalità organizzative della didattica, a cominciare dalla distribuzione di alunni/studenti per gruppi-classe. Potrebbe essere, questa, l’occasione favorevole per rivedere in positivo le modalità di rapporto tra istituzione scolastica e territorio, con l’obiettivo di trarne vantaggi dall’una e dall’altra parte. Ad esempio, fare scuola nelle piazze, nei parchi, nei giardini, ma anche nei teatri, nelle sale cinematografiche, nelle diverse strutture ricettive e – perché no – nei luoghi di culto religioso, potrebbe costituire di per sé uno stimolo alla sperimentazione. Questa reciproca apertura tra scuola e territorio può, d’altra parte, fornire a diverse realtà istituzionali, associative, partecipative, utili opportunità di rapporto/confronto, di socializzazione con le giovani e giovanissime generazioni. Non è più soltanto l’istituzione scolastica, bensì tutto il territorio in cui essa opera a diventare “comunità educante”: quell’educazione davvero diffusa, pienamente inclusiva, innovativa, attiva da molti auspicata, ma finora assai poco praticata. Va da sé – ma è bene sottolinearlo – che fin da settembre dovrà essere notevolmente potenziato il servizio di medicina scolastica, nell’ottica – ovviamente – della prevenzione. Altrettanto scontato, alla luce di quanto detto, è che si realizzi il pieno, effettivo riconoscimento dell’autonomia delle istituzioni scolastiche sul piano organizzativo, su quello didattico, su quello della sperimentazione: ci si attrezzi, in sede ministeriale, perché ogni esperienza messa in campo possa poi, a tempo debito, essere studiata, valutata, valorizzata e si lasci che mille e più fiori fioriscano!
Il prossimo anno scolastico non potrà che essere “transitorio”, rappresenterà cioè l’apertura di un percorso, di un processo – ancora non sappiamo quanto lungo – destinato al traguardo di un sistema di educazione, istruzione, formazione profondamente e radicalmente riformato. Gli strumenti operativi della transizione dovrebbero consistere in un grande piano nazionale di edilizia scolastica e in un altrettanto consistente piano di ampliamento degli organici di tutto il personale (docente, tecnico-amministrativo, ausiliario). Intanto, per progettare una scuola adeguata al tempo che viviamo, da costruirsi facendo ricorso anche a inediti e diffusi strumenti di partecipazione democratica, che sfocino – ad esempio – in una sorta di “Costituente nazionale per la scuola”, sarà necessario mobilitare (fin da subito!) tutte le competenze scientifiche e tecniche, per nostra fortuna largamente presenti nel Paese.
Si tratterà, innanzi tutto, di ridefinire i saperi fondamentali e necessari per il cittadino del mondo nuovo, nel quadro – ma questo, al momento, è soltanto un mio auspicio – di un “Rinascimento umanistico globale”.
Gennaro Lopez