C’è una sensazione inquietante che oramai proviamo da parecchi giorni.
Non è il dibattito allucinante su putinismo o antiputinismo e neppure il confronto, questo sì nobile e appassionato sempre che fugga alla tentazione di degenerare in un conflitto incomprensibile e autolesionista, tra le diverse anime del pacifismo.
La sensazione inquietante che avvertiamo è altro; una sorta di silenzioso allontanamento dalla guerra in Ucraina, un prendere le distanze come autodifesa da una realtà troppo scomoda, il prevalere della durezza della crisi economica che avanza e pesa nella vita quotidiana, piegata da un aumento generalizzato dei prezzi in cui è fin troppo visibile una clamorosa e ingiustificabile speculazione. Da sempre la guerra ha arricchito qualcuno; il mercato non guarda in faccia al dolore, alle morti, alle persone ridotte alla fame e alla fuga.
Anche la vicinanza che si era avvertita forte nei confronti delle migliaia di profughi dall’Ucraina verso i nostri territori, sembra fortemente attenuata. Non leggiamo più le storie, le cronache, l’interesse e la mobilitazione dal basso per una accoglienza di migliaia di bambini che sta toccando anche le nostre scuole e che ci aveva fatto ben sperare.
L’accoglienza prosegue intendiamoci, ma come in una bolla che coinvolge solo i diretti interessati e le strutture impegnate. Non sembra di essere più in grado di suscitare compartecipazione, condivisione, un’esperienza in grado di parlare a tutti.
“Dicono che la parola profugo cancella ogni altro nome, ogni storia. Parlano di fuggire, di rifugiarsi. Ricordano coloro che sono rimasti. Sognano di tornare. Non vogliono dimenticare e nello stesso tempo pensano di nascondere il passato, come si nasconde un piccolo tesoro”.*
Non c’è accoglienza senza empatia e ascolto attivo. Il rischio del crescere di una indifferenza alla guerra e alle vittime del conflitto è sicuramente il pericolo peggiore che bisogna evitare. In quella indifferenza si nasconde infatti la “zona grigia” su cui ci ha fatto riflettere Primo Levi. Non vincerà nessuna invocazione della pace, del cessate il fuoco e dell’inizio di un negoziato, se questa spinta non verrà sostenuta in primo luogo dalla società civile e dal mondo del lavoro. Per queste ragioni la scelta della Cgil di animare, dopo tante assemblee nei territori, la piazza di Roma per ridare un volto sociale alla aspirazione alla pace, è una scelta importante che sentiamo di condividere fino in fondo. Per il giorno 18 giugno, certamente, ma anche nella testimonianza che ogni giorno possiamo esprimere nella scuola. Dove imparare quale è la responsabilità che abbiamo nei confronti di ciò che accade nel mondo.
“Pace e Lavoro”; parole antiche che tornano con tutta la loro forza di parole senza tempo.
Dario Missaglia