Per le risposte a questo articolo vedi nella rubrica "Vicini alla scuola".
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La pandemia non è soltanto l’esito di una malattia epidemica che si diffonde. È anche un processo sociale perché il virus che produce il fenomeno non determina solo malattia, dolori, morti. La pandemia colpisce le persone, ne condiziona il modo di pensare, agire, vivere, relazionarsi con sé e gli altri. Mette in crisi le sicurezze esistenziali ed economiche, accentua le insicurezze già presenti prima, rende incerto il futuro, accentua le debolezze, rischia di separare piuttosto che unire le persone, rende esplosiva la separazione tra i garantiti e i meno garantiti.
La complicata gestione sanitaria della pandemia ci fa riflettere sul troppo ottimismo verso le scienze come certezze risolutorie, riscoprendo la necessità di fare ricerca e di avere sguardi nuovi sulla condizione drammatica in cui un modello di sviluppo e di vita, ha ridotto il pianeta.
Dunque la pandemia è un fenomeno sociale con effetti complessivi, non solo sanitari, sulle persone. Per queste ragioni, anche nei mesi scorsi, abbiamo espresso perplessità su una gestione istituzionale del processo di contenimento del virus, tutto centrato sulla salute intesa come assenza di malattia e difesa dal rischio virus.
Sia chiaro, non abbiamo la minima tentazione di occhieggiare ai vari movimenti negazionisti che qualche danno sono riusciti a fare anche nel nostro Paese. Siamo convinti che le misure anti Covid, centrate sul principio della massima precauzione per la sicurezza di tutti, siano giuste. Ciò che è mancato e continua a mancare è la capacità di comunicare quelle misure, avendo a riferimento le persone e non il virus.
Sono convinto che se si fossero resi comprensibili gli effetti complessivi del confinamento (a partire da una scelta attenta delle parole: “distanziamento sociale” è un’espressione terribile, evocativa di immani tragedie; poteva essere decisamente meglio “distanziamento interpersonale”), non si sarebbero sminuite le misure, le avremmo solo rese più comprensibili e gestibili. Un breve esempio: il confinamento può aver prodotto, in particolare per i più piccoli, qualche effetto positivo, oltre a difendersi dal virus? Forse sì, almeno in alcuni contesti: tempi più rilassati e meno stressati della vita quotidiana; possibilità di godere di cure parentali più presenti e calde; possibilità di misurarsi di più con la necessità di rispettare alcune regole per evitare che la vicinanza “forzata” crei tensione; la scoperta interessante, se guidata, al mondo di una casa fatto di oggetti, piccoli lavori e creatività da condividere con i propri cari. Ma il confinamento, sempre con particolare riferimento ai più piccoli e soprattutto a quella parte che vive in famiglie disagiate, può avere prodotto processi negativi: deprivazione motoria, cognitiva, ansia, paura, contatto magari anche solo attraverso immagini, con la morte; e per i più grandi, difficoltà nella relazione attraverso il video per assenza di device, strumenti, connessioni; oppure disagio per non avere spazi adatti a una comunicazione online.
Negli appartamenti di modeste dimensioni, tutte le difficoltà si sono accentuate, rendendo ancora più esplicite e pesanti le diseguaglianze reali.
Spiegare senza componenti ansiogene che tutto ciò sarebbe potuto accadere, non avrebbe sminuito l’importanza e la necessità delle misure, ma avrebbe offerto riflessioni utili per i comportamenti da realizzare con ragionevolezza, ovvero con la capacità di contestualizzare principi e teorie e trovare il giusto equilibrio nella pratica. Insomma, comprendere gli effetti più generali della pandemia avrebbe potuto valorizzare il ruolo della responsabilità personale più che la forza delle sanzioni e delle pene previste. E avrebbe forse invitato di più, anche le autorità istituzionali, a cercare qualche spiraglio nel buio.
Torno ancora una volta sui più piccoli. Considero grave e per me imperdonabile, che la scuola non abbia neppure pensato e tentato di marcare una qualche presenza nel periodo tra maggio e agosto. In tutta Europa, e Proteo ne ha dato conto, ci sono stati tentativi ed esperienze di questo tipo. Penso che con tutte le precauzioni del caso (piccoli gruppi a rotazione, con utilizzo prioritario di spazi aperti protetti, una-due volte a settimana, con i dispostivi di protezione e a partire dalle zone meno esposte al virus), sarebbe stato possibile mantenere viva e vitale una relazione tra la scuola, le famiglie, il territorio. Azioni che avrebbero dato un senso diverso, nella scuola primaria, persino alla didattica a distanza, sottoposta almeno a verifiche periodiche in presenza e alla rielaborazione in gruppo. Avremmo anche così sperimentato modalità di rientro, partendo dalle zone meno contaminate e con piccoli numeri, partendo dal basso e dalla creatività degli educatori. E saremmo anche riusciti a mantenere un filo di intenzionalità educativa, di studio, di pensiero, evitando una pausa che di fatto, dal punto di vista cognitivo, è stata talmente prolungata da aver compromesso, certamente nelle fasce più deboli, l’esito di un intero anno scolastico.
Altro che debiti degli studenti e richiamo ai voti decimali!
Quel filo capace di rammendare un sistema spezzato dalla pandemia avrebbe soprattutto potuto favorire un processo di rielaborazione delle esperienze vissute che l’amministrazione scolastica ha voluto ignorare e si rifiuta persino di nominare ancora oggi, salvo un po’ di pensieri miti e consolatori e un po’ retorici per la scuola dell’infanzia. Tutto ciò è molto grave perché se evitiamo a scuola di raccontare le esperienze di questi mesi e rielaborarle, rischiamo di uscire dalla fase più acuta della pandemia, “come vi eravamo entrati”, non imparando nulla. E sarebbe drammatico perché se i vissuti e le emozioni non sono liberi di esprimersi, affiorare, non scompariranno dalle nostre vite ma lavoreranno in quelle profondità dove sarà ancor più difficile recuperarle. Ciò vale sia nella relazione educativa tra docenti e alunni/studenti, ma anche tra i docenti stessi, per farsi comunità riflessiva capace di fare squadra nelle situazioni difficili partendo dalla comune riflessione su ciò che è stato, ciò che si è appreso, ciò che si è vissuto. Credo che tutto il difficile, complesso e talvolta conflittuale impegno del sindacato per garantire le migliori condizioni materiali per la ripartenza (formazione sul campo di tutti gli operatori, protocolli di sicurezza ai diversi livelli, pressione per rivendicare organici ATA e docenti necessari per un avvio praticabile dell’anno scolastico), sia stato di grande importanza. Proteo ha sostenuto con forza questo impegno, assicurando anche in piena estate corsi di formazione per i dirigenti scolastici, in particolare i neonominati, per i DSGA e tutta l’area del personale ATA. Questo impegno proseguirà, ma ora si apre un capitolo nuovo.
Non si torna a scuola come se non fosse successo nulla.
La ricerca comprensibile per la “normalità” (intesa come tranquillità, sicurezza, ripresa di gesti e routine rassicuranti) non può passare attraverso una rimozione di massa di esperienze così profonde e sofferte. È questo il delicatissimo compito che attende gli insegnanti. Perché subito dopo i banchi (con rotelle o meno), le rime buccali, le mascherine, i percorsi segnalati, il medico scolastico, i trasporti, le aule e i bagni, i responsabili delle diverse funzioni, i lavoratori “fragili” e i test sierologici, gli organici, le nomine, arrivano “loro”: alunni e alunne di ogni età, quella umanità di cui abbiamo reclamato la vicinanza nei mesi del distanziamento forzato. Alunni e alunne che tornano a scuola pieni di esperienze anche dure, ma pieni anche di attese.
Pieni, però, non vuoti di lacune.
Si avverte la mancanza di uno sguardo pedagogico; la capacità di saper coniugare sicurezza e didattica, di recuperare un valore pieno alla relazione educativa e provare una progettualità educativa nella straordinarietà. Perché nulla di questo presente è normale. Fingere un rientro solo sanitarizzato come se niente fosse successo sul piano umano, sociale e pedagogico, è il principale rischio per chi si occupi di rientro a scuola. Un rientro che vogliamo il più positivo possibile nelle condizioni date.
Ce lo chiede quest’epoca del tutto straordinaria, senza precedenti, nella quale la navigazione verso un porto educativo giusto ha bisogno di pensare insieme le rotte, come evitare i rischi, come cercare il vento giusto. Forse la verità più profonda di questa fase è proprio questo nuovo bisogno di un progetto per il futuro.
Triste e stupefacente osservare che di questo siamo tra i pochi a parlare.
Ma a breve sarà questo il tema del giorno. Per queste ragioni abbiamo lavorato per predisporre qualche utile riflessione per una ripartenza attenta alla gestione delle relazioni educative complesse. Una sorta di “protocollo pedagogico” non direttivo né burocratico, ma propositivo, per un agire attento, riflessivo, generativo che sarà possibile soltanto se i docenti, come comunità di persone, assumeranno collettivamente questa responsabilità.
Un contributo della nostra associazione Proteo Fare Sapere, fatto di idee, proposte e contributi per scrivere, con chi vorrà condividerne il senso, una nuova pagina di cultura professionale e impegno civile.
8 settembre 2020