La Costituzione vive nella conoscenza è un bel titolo, evoca vitalità programmatica che va declinata nelle nostre azioni quotidiane, altrimenti rischia di diventare una semplice enunciazione di principio. Gli ideali della Costituzione italiana e quelli della Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo (approvati 70 anni fa dalle Nazioni Unite) sono l’opposto di quella triste e cupa rappresentazione in cui vorrebbero rinchiuderci i sovranisti, con la loro visione di un mondo pieno di barriere, di intolleranze e di esclusioni. Noi, forze progressiste, dobbiamo avere un’idea di società nitidamente delineata: batterci contro la barbarie, per la redistribuzione della ricchezza, per l’innovazione, per l’ambiente, per i diritti.
Tra i diritti, al primo posto c’è il diritto all’istruzione e al sapere. Lavorare per una scuola pubblica di qualità è il nostro obiettivo. Come Associazione professionale Proteo Fare Sapere, nei 31 anni di storia, fatta di iniziative e di ricerca, su questo abbiamo agito.
A volte qualcuno ci considera semplice appendice della casa madre, la FLC CGIL. Si tratta di un pregiudizio. A ben guardare in questi anni abbiamo espresso una riflessione politica e culturale messa a disposizione del nostro sindacato. Ci siamo interrogati sul profilo culturale che i settori della conoscenza devono avere per rappresentare al meglio le lavoratrici e i lavoratori. Provo a declinare questo mio intervento su tre linee di riflessione.
La prima tiene conto del contesto sociale, politico e culturale nel quale siamo immersi; la seconda cerca di delinearne delle linee interpretative; la terza, infine, guarda alla prospettiva e fa qualche proposte di merito.
Dunque, sul contesto, dal nostro punto di vista - da quello di chi osserva e partecipa ai processi educativi in atto nella società ponendosi dalla parte del formatore/professionista - possiamo dire che siamo di fronte ad una trasformazione epocale. I tradizionali strumenti formativi utilizzati, per consentire agli studenti di essere pienamente cittadini del mondo, sono decisamente in crisi. Assistiamo ad una mercificazione dell’istruzione in maniera smodata. Gli stessi linguaggi utilizzati richiamano le logiche del mercato (portfolio, debiti, crediti, competenze funzionali al lavoro, ecc.). Siamo immersi in un panorama culturale che spesso certifica le diseguaglianze, con scarsa attenzione agli strumenti per superarle. La nostra Costituzione dice che è compito della Repubblica rimuovere tali cause. Invece siamo di fronte alla costatazione, quasi commiserevole, dell’esistente; continua ad andare avanti un processo di disgregazione e di accentuazione delle differenze che stanno minando le basi dell’unità nazionale.
A dimostrazione di questo c’è l’aumenta del divario Nord - Sud (basta guardare i soli dati sulla dispersione scolastica) e con esso si stanno ponendo le basi per una realtà nazionale fortemente differenziata in possibilità di studio, in servizi pubblici, in prospettive occupazionali, dunque in esigibilità dei diritti costituzionalmente garantiti. Un dualismo certificato in tanti modi. SVIMEZ il mese scorso, nel suo rapporto annuale sull’economia del SUD, scrive: La migrazione dei laureati provoca per il Mezzogiorno una perdita di 2 Miliardi che, invece, vengono risparmiati dal Centro Nord. Un dato allarmante che sta determinando lo spopolamento di vaste aree del Meridione. Perché i giovani laureati non ritornano nella propria terra. La migrazione di giovani colti e preparati. L’Istat lo sta certificando da tempo. Ma alla base della migrazione studentesca dal Nord a Sud c’è un altro dato, come scrive SVIMEZ: Il valore dei beni di consumo pubblici e privati attivati dall’emigrazione studentesca da Sud a Nord è di circa 3 Miliardi. Un fatto è incontrovertibile, il Sud si sta allontanando sempre più dal Nord. E le politiche nazionali non vanno verso obiettivi di convergenza.
A me pare evidente un fatto: quando ci sono state politiche nazionali di convergenza, il divario Nord Sud si è ridotto. Pensiamo alla stagione delle riforme negli anni sessanta e settanta; quando, invece, si è puntato su autonomia e regionalismo, a partire dagli anni novanta, il divario è aumentato. Sono state soprattutto le classi dirigenti meridionali che hanno determinato questo stato di cose, dirottando le risorse verso il consenso per perpetrare il loro potere, piuttosto che verso usi tesi a ridurre il divario. Si tratta di un dualismo spesso funzionale ad un tipo di crescita e di sviluppo della società. Dobbiamo esserne consapevoli se vogliamo agire nel profondo e non essere semplici testimoni. Le differenze si accentuano ed è spesso facile prendersela con gli elettori, dimenticando che gli stessi avevano, nel recente passato, sperato nel cambiamento votando il centrosinistra. Che, purtroppo, in molti casi si è affrettato a fare politiche di destra. Non ci sarà crescita complessiva senza lo sviluppo dell’intero paese, Sud compreso.
Il modello di società neoliberista è vincente. Rappresenta il riferimento anche per i nostri settori: a noi è dato il compito di formare il cittadino produttore non il cittadino consapevole! Le parole chiave sono: Impresa, competizione, ruolo marginale dello Stato. Alla scuola si chiede di essere fabbrica di capitale umano, agenzia di socializzazione allo spirito competitivo (competenze funzionali). A questa cornice, come ci ricorda Massimo Baldacci, va contrapposta la cornice democratica basata sullo sviluppo umano. Di cittadino capace di orientarsi nella complessità del mondo in continua trasformazione.
E qui veniamo al secondo punto. Quello delle linee interpretative su ciò che accade. A volte il ritorno ai classici aiuta. E’ quello che abbiamo cercato di fare in questi ultimi anni come Proteo Fare Sapere. Ricorrere alla rilettura dei padri del pensiero pedagogico democratico per analizzare il presente. Il pensiero di John Dewey, ma anche di Franco Fortini. Abbiamo tenuto convegni su personaggi che hanno lasciato un segno indelebile quali don Lorenzo Milani e Primo Levi; abbiamo interrogato i padri del pensiero progressista - da Marx a Gramsci - sui temi dell’educazione e dell’istruzione. Lo abbiamo fatto in raccordo con l’università. Abbiamo coinvolto l’Accademia della Crusca a Firenze, per il rilancio dell’educazione linguistica democratica e dell’istruzione degli adulti sulla quale è sceso un silenzio assordante. Infatti è passata nel dimenticatoio la formazione per tutto l’arco della vita. Particolare rilievo hanno avuto i seminari sulla didattica della storia del Novecento con proposte di laboratori per i docenti. Siamo impegnati in diversi territori a promuovere le didattiche legate ai valori della Costituzione.
Si è trattato di contributi determinanti per affrontare i cambiamenti in atto e, soprattutto, per avere un’idea di società. Solo così è possibile dare un orizzonte alla politica. È quello che hanno fatto i grandi partiti di massa del Novecento determinando un legame con il proprio popolo, fatto di identificazione culturale, etica e filosofica, prima ancora che politica. Da ciò discende poi l’azione politica e, per quanto di nostra competenza, anche quella sindacale e professionale. Noi dobbiamo dare identità a tutto ciò. E il richiamo ai valori costituzionali (fatti di ideali e di programmi ancora da realizzare) è certamente determinante.
Tuttavia - è questo il terzo punto - perché il tutto non si traduca in un semplice esercizio di stile, bisogna essere conseguenziali: alle parole devono seguire i fatti. L’orizzonte di Proteo è quello di una politica formativa che guardi alle professionalità. L’adeguamento alle caratteristiche attuali dei saperi (nella loro produzione, diffusione e gestione) richiede la costruzione di identità e profili culturali inediti, anche per restituire piena dignità e orgoglio alle diverse professioni elevandone i livelli di qualità e prestigio.
L’educazione permanente come diritto-dovere universale (reinterpretando e attuando lo stesso art. 3 della Costituzione) deve rappresentare il pilastro portante di ogni serio progetto relativo all’istruzione, alla formazione, ad una pedagogia di massa che non trova più risposte adeguate nelle tradizionali agenzie formative e nella stessa famiglia.
È necessario mettere in discussione un certo ordine gerarchico dei saperi disciplinari, ridefinirne le epistemologie e ricomprenderli nella prospettiva di un "umanesimo possibile" per il XXI secolo. Da questo punto di vista diventa importante il rapporto scuola - università che non può essere episodico o funzionale (dedicato alla sola formazione iniziale). Scuola e università continuano a essere troppo spesso mondi separati. Non c’è una contaminazione reciproca per delineare al sistema d’istruzione una prospettiva scientificamente definita, solida dal punto di vista culturale, capace di farsi interprete dei processi, secondo una logica inclusiva che valorizzi le professionalità, attenta alla rendicontazione secondo la modalità della catena di senso: finalità, obiettivi, azioni, risultati e valutazione degli effetti.
Le nostre proposte di merito guardano alla prospettiva. In cartellina, ne trovate alcune. Faremo anche noi il nostro congresso e ne discuteremo. Un congresso serve per tracciare la rotta, non per autocelebrarsi. Pertanto dobbiamo discutere fino in fondo di temi, quali sono quelli della conoscenza, che incideranno sui livelli di sviluppo e di crescita nella nostra società. Dobbiamo dire le cose che vanno cancellate e come arrivarci. Dicevo prima che va ripensata l’autonomia scolastica che rischia di diventare certificazione delle differenze territoriali. Eppure è nell’articolo 117 della Costituzione. Com’è possibile ad una scuola progettare la sua offerta formativa quando non si rimuovono le cause che lo impediscono: mi riferisco, ad esempio, alle politiche del reclutamento che in questi anni sono cambiate tantissime volte, con interventi molto discutibili. Pensare che si possa insegnare perché si ha un diploma preso 20 anni fa significa negare il valore da attribuire alla formazione iniziale. Pensare di togliere il tirocinio nella formazione iniziale vuol dire tornare al semplice disciplinarismo. Non è detto che chi sa, sappia insegnare. Pensare a una formazione obbligatoria, strutturale e permanente decisa gerarchicamente dall’alto, significa esattamente il contrario di quello che serve alla scuola per tendere al successo formativo degli studenti. Pensare di fare delle mega scuole dimensionate, accorpate solo per arrivare ai numeri previsti dalle norme, comporta la negazione della programmazione dell’offerta formativa territoriale attraverso una rete scolastica adeguata. Non si salvaguardano le tante aree interne che vedono la chiusura di istituti e scuole, con l’accentuazione dello spopolamento. Non si discute di come si garantisce il diritto ad una scuola pubblica di qualità in edifici sicuri.
In tutto questo c’è un'evidente mortificazione del ruolo del dirigente scolastico che è sempre più preso dagli aspetti gestionali ed organizzativi e non ha tempo per curare il conseguimento degli obiettivi prefissati nel piano dell’offerta formativa. Così l’autonomia scolastica è compromessa, resta, appunto, una semplice enunciazione. Diventa essenzialmente adempimenti burocratici, segreterie scolastiche trasformate in mini provveditorati, schede di monitoraggi e finta dematerializzazione. Un’autarchia che alimenterà le differenze territoriali e che determinerà ulteriori squilibri tra Nord e Sud. Dietro l’angolo c’è l’autonomia differenziata. Un colpo mortale al sistema educativo nazionale. In questo modo i giovani del Sud verranno privati della libertà di poter decidere del proprio destino che si ha solo con una buona istruzione, con la fruizione di diritti collettivi e personali, con un reddito adeguato, ma verranno privati anche del poter capire le ragioni, del perché si è giunti a questo punto, di chi sono le responsabilità.
Dunque, a noi tocca riprendere le fila di un ragionamento, ma credo anche di una forte mobilitazione, perché non possiamo cavarcela soltanto con: l’avevo detto. Dobbiamo agire, riorganizzare il nostro bagaglio culturale, e fare proposte di merito che lavorino per la prospettiva. Fuori da noi c’è un mondo che sempre più spesso, chiuso nell’individualismo, non chiede di essere rappresentato, spesso ci chiede la sola tutela individuale. È fortemente disilluso. Riprendere le fila di un discorso sulla rappresentanza sindacale significa anche aver chiaro l’ambito entro il quale delineare le politiche formative per realizzare una adeguata rappresentanza professionale. Le due cose devono trovare un minimo comun denominatore: Sono un professionista della conoscenza e voglio rappresentare il tuo lavoro affinché esso sia valorizzato e possa contribuire a dare agli studenti una scuola pubblica di qualità. Ma, lo abbiamo visto, i temi della professionalità incrociano anche riflessioni su come facciamo sindacato, che tipo di offerta di formazione proponiamo, a partire dall’idea che abbiamo dei settori della conoscenza. Chi accetta la logica del mercato: lo fanno gli altri, lo facciamo anche noi (un ricorso, un corso, un’iniziativa) vivacchia, non sta ponendo le basi per un cambiamento di prospettiva e per un'inversione di tendenza rispetto al modello neo liberista dominante. L’agire non deve servire a ricomporre una rete di relazioni al nostro interno, ma a mostrare una prospettiva all’esterno, una idea per la quale è giusto mobilitarsi.
Le buone pratiche sono diffuse, a noi sta il compito di farne il riferimento culturale per promuovere aggiornamenti della nostra politica sindacale e professionale.
In questi mesi abbiamo, con altre cento associazioni, promosso il tavolo Saltamuri. Stiamo assistendo alla crescita nella nostra società di violenza verbale, di linguaggi escludenti, di stereotipi indotti, di incitazioni alla discriminazione, di una cultura dell’aggressività e della stigmatizzazione di gruppi umani che non risparmia i bambini. Per contrastare il razzismo, ognuno è chiamato a ripensare in modo radicale il loro ruolo. La scuola deve poter essere presidio di democrazia e di promozione culturale, luogo di convivenza aperta capace di contrastare tensioni disgreganti e visioni divisive e di partecipazione democratica. Dal 10 dicembre al 17 dicembre centinaia di scuole hanno lavorato per l’accoglienza, la dignità, l’umanità.
Ma, lo sappiamo. Non basta essere istruiti per essere umani. Primo Levi, sul quale il prossimo anno, in occasione dei cento anni dalla nascita, realizzeremo varie proposte di laboratori didattici, ci ricorda che: istruiti erano anche gli aguzzini dei campi di concentramento.
Ha detto recentemente Edgard Morin: A renderci umani sono lo stupore, la sensazione dell’ignoto e la consapevolezza del limite.