Nell’ambito della relazione introduttiva alla Conferenza nazionale sul Welfare del 1995, Bruno Trentin così ammoniva: “… vogliamo parlare del fattore in cui lo Stato sociale in Italia è strutturalmente latitante; quello dell’istruzione e della formazione permanente. È sulla base di questo fattore che si deciderà nei prossimi decenni la collocazione economica e sociale dell’Italia fra le nazioni industrializzate” *.
Da questa premessa Trentin avviava una attenta analisi del nostro stato sociale e degli effetti che quella latitanza già determinava nei processi di degradazione del lavoro, precarietà dell’occupazione, selezione dei cittadini di fronte alle nuove sfide. Con la passione che lo caratterizzava denunciava la riduzione sistematica degli investimenti nel settore della formazione e dell’educazione, in netta controtendenza con gli altri Paesi europei, l’aumento del tasso di assenteismo e di esclusione nella frequentazione delle strutture scolastiche e gli effetti duraturi e cumulativi di queste carenze formative che costituiscono un ostacolo che cresce con l’andare del tempo, pesando sulle opportunità di inserimento lavorativo e di riqualificazione del proprio lavoro. Un processo negativo che vede tra i latitanti anche il sistema delle imprese che non intendono “assumersi una parte dell’onere di formare, qualificare ed aggiornare la stragrande maggioranza di lavoratori che esse occupano” *.
Nell’affermare con forza che il diritto all’istruzione e all’educazione è il primo diritto che uno Stato sociale moderno dovrebbe garantire “quale condizione essenziale per l’esercizio effettivo di tutti gli altri diritti che esso è chiamato a tutelare”, Trentin non risparmiava un lungo elenco dei limiti, ritardi, resistenze che ostacolano quel profondo processo di riforma del sistema di istruzione e finiscono per sommarsi all’esiguità delle risorse destinate alla formazione. Una contraddizione lacerante che parla anche alle nostre responsabilità. La prima, su tutte, è la riduzione del valore della solidarietà che non può essere intesa solo come distribuzione di reddito e risorse ma, come sosteneva Trentin, sempre più in termini di redistribuzione di “servizi, servizi alle persone, servizi alla collettività”.
In sostanza o lo Stato sociale opera un passaggio dalla concezione risarcitoria a una concezione promozionale, oppure i legami di solidarietà tra le persone sono destinati progressivamente a sgretolarsi. Trentin coglieva insomma il cuore della trasformazione sociale e istituzionale dello Stato. Allora, quasi trent’anni fa, non c’era il titolo V e neppure l’autonomia differenziata ma c’era tutto il senso politico della questione: come rimettere insieme questo Paese, come costruire una relazione virtuosa tra tutti i livelli istituzionali, come costruire un sistema di istruzione e formazione permanente capace di produrre legami sociali solidali e consentire anche di fronteggiare le nuove sfide della rivoluzione tecnologica e dei cambiamenti nel mondo del lavoro. Come superare la degradazione di un sistema sociale risarcitorio, esposto alle derive assistenzialiste/individualistiche e costruire un welfare promozionale per la realizzazione dei diritti delle persone.
Ebbene di tutto questo non vi è traccia nel dibattito sull’autonomia differenziata; i protagonisti restano latitanti di un pensiero e di una discussione mai realizzata con le forze sociali, i cittadini, i movimenti e le associazioni di volontariato. Sono latitanti e anche recidivi, perché almeno le dure lezioni del covid prima e ora le conseguenze della drammatica guerra in Ucraina qualche riflessione avrebbero pure dovuto suggerirla sulla fragilità istituzionale del nostro Paese, sulle laceranti ripercussioni sulla scuola e sulla sanità, sulla crescita di diseguaglianze che non trovano resistenza e ricomposizione in uno Stato in cui i diversi livelli istituzionali non riescono a lavorare per obiettivi condivisi e verificati. Anche quando vi sarebbero le risorse. È il caso, in questi giorni, dei nidi per l’infanzia dove malgrado reiterate proroghe dei bandi per l’apertura di nuove strutture, l’obiettivo del fabbisogno non sarà raggiunto per effetto di un sistema istituzionale che non funziona e che non prevede che laddove vi sia un interesse generale da perseguire (in questo caso i diritti dell’infanzia) lo Stato abbia piena e diretta titolarità di intervento. Se così non fosse che senso ha aver collocato lo 0/6 nell’ambito del sistema nazionale di istruzione dello Stato?
E che senso ha il fatto che in questi giorni il Ministro Bianchi decida per decreto come contrastare la dispersione scolastica senza neppure un confronto preventivo con le confederazioni sindacali, i sindacati e le associazioni professionali della scuola? Può una questione generale di questa rilevanza sociale, essere ricondotta a una decisione ministeriale?
Di questi temi e del dibattito sopra richiamato, gli annunci dei promotori dell’autonomia differenziata non dicono nulla ma, avvertendo le elezioni che si avvicinano, riprendono fiato. Per queste ragioni ha fatto bene la Cgil a richiamare il Governo sul fatto che l’assetto istituzionale del Paese non può essere materia sottratta a una discussione che deve coinvolgere il Paese, le istituzioni, il movimento sindacale, le associazioni. In gioco c’è il futuro della solidarietà come valore discriminante di tutte le politiche e come unico antidoto alle diseguaglianze territoriali, c’è la difesa di diritti fondamentali come quello all’istruzione che deve restare risorsa nazionale, attiva e permanente per tenere insieme il Paese. Anche contro la volontà dei latitanti.
Dario Missaglia
27 giugno 2022
*Sergio Cofferati (a cura di) Welfare dallo Stato alla comunità. Temi per un dibattito. Roma, Ediesse, 1996, pp. 20, 22, 216