di Massimo Baldacci, presidente nazionale Proteo Fare Sapere
Nell’ultima pagina di Se questo è un uomo, Primo Levi ci ha lasciato una sentenza lapidaria: “Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo”. Vi si può rilevare lo sforzo di cogliere il senso del radicalmente insensato: lo sterminio pianificato freddamente e scientificamente del popolo ebraico, il più orrendo misfatto della storia. Ma nelle parole di Levi emerge un altro crimine radicale: la cosificazione dell’altro, la sua deliberata disumanizzazione. L’uomo non è più il consimile, ma è degradato a oggetto. La sua dignità è cancellata, moralmente degradata. Così, non vi sono più limiti al modo di trattarlo, di infliggergli violenze e sofferenze. L’atteggiamento propriamente umano è quello di trattare l’umanità propria e altrui sempre come un fine e mai come un semplice mezzo (si veda il Kant della Metafisica dei costumi). Di conseguenza, è disumano l’atteggiamento di vedere l’altra persona solo come uno strumento da usare o, con le parole di Levi, come una mera cosa. Se l’umanità consiste nel trattare il proprio simile come un fine, rispettandone la dignità, farne un oggetto o uno strumento non significa solo disconoscere la sua umanità, ma anche disumanizzarsi. Colui che priva l’altro della sua umanità perde anche la propria. Essere umani significa riconoscersi reciprocamente come tali. Non per niente, il dialogo ne è l’esperienza fondamentale. Quando viene meno questo riconoscimento, nel mondo irrompe la disumanità. E allora la storia diventa cupa tragedia.
A cosa si deve il cortocircuito che interrompe il riconoscimento reciproco? Si potrebbero indicare molte probabili cause. Hanna Arendt, nella Banalità del male e in altri scritti (Socrate; Alcune questioni di filosofia morale) ne individua una fondamentale. Imputare tragedie come l’Olocausto al Male assoluto, a individui mefistofelici, è solo un’illusione. Distoglie lo sguardo dalla vera radice delle tragedie disumane: il male nella sua banalità, perfino quotidiana. Una serie di piccoli mali (egoismo, conformismo, opportunismo, indifferenza, ecc.) che degenerano quando nella coscienza precipita il silenzio. Per Arendt la coscienza è stata la scoperta di Socrate: il dialogo interiore con sé stessi. Il fòro interno in cui giudichiamo i nostri atti e imponiamo limiti e prescrizioni al nostro agire. Ciò che fa di noi soggetti morali. Così, Eichman – il gerarca nazista processato e giustiziato a Gerusalemme – non era un mostro: era un individuo banale che aveva tacitato la propria coscienza, che aveva cessato di interrogarsi come soggetto morale. La sua giustificazione era quella di aver eseguito gli ordini. Ma su quante coscienze era sceso il sonno e il silenzio? Da quel sonno di massa era nata la più tetra tragedia della storia. Come ha ricordato Levi in I sommersi e i salvati, tale sonno si era diffuso perfino tra gli internati nei campi di sterminio, tra coloro che collaboravano con i nazisti (i kapos, le squadre speciali incaricate di gestire i forni crematori), tra gli anziani che angariavano i nuovi arrivati. Le vittime della disumanizzazione radicale possono diventare a loro volta disumane. Smettere di interrogarsi come soggetto umano è il presupposto per ridurre l’altro a cosa, per spalancare il baratro della disumanità.
Il Giorno della Memoria deve ricordarci che questo fatale sonno della coscienza è sempre in agguato. La coscienza morale dorme quando si assiste con indifferenza al massacro di popolazioni civili inermi, o quando si vendono addirittura armi ai loro carnefici. Ma la disumanità si manifesta anche nel linguaggio, come quando si definiscono le vittime civili di raid militari come “danni collaterali”, equiparando la loro uccisione al danneggiamento di cose (per l’appunto). Ci sarebbe molto altro da dire, e molte precisazioni da aggiungere a questo discorso, che è inevitabilmente parziale. Ma ciò che conta è cogliere il senso della Memoria, che non è semplicemente quello di giudicare gli altri, ma di interrogare sé stessi. Sapremo mantenere desta e vigile la nostra coscienza? O lasceremo che il conformismo e l’opportunismo la intorpidiscano? Si ricordi soltanto che chi lascia addormentare la propria coscienza non potrà educare i giovani.