Non potendo neppure provare a dire che il nuovo esecutivo sia di “alto profilo”, la neo Presidente del Consiglio ha pensato bene di introdurre alcune modifiche nelle denominazioni di taluni Ministeri. Insomma, come dire, se non c’è la sostanza, almeno l’etichetta. E le etichette sono chiare “sicurezza energetica, natalità, made in Italy, sovranità alimentare, istruzione e merito”. La destra, in assenza di altro, aveva bisogno di mettere il suo timbro e lo ha fatto. Nessuno ha più parlato dell’inesistente alto profilo e via una valanga di note e dichiarazioni sulle nuove etichette.
Il paradosso è che, mi pare, neppure sia stata messa in risalto la gravità del fatto in sé e cioè un’idea proprietaria, privatistica delle istituzioni che è in quanto tale un danno per le istituzioni stesse e per l’immagine del Paese. Se un nuovo governo vuole esprimere la propria identità, ha tutta una politica per farlo, senza contaminazioni antiistituzionali. Ora attendiamo le dichiarazioni programmatiche per capire quali scelte concrete questo governo vorrà fare. Il neo Ministro Valditara, a fronte delle reazioni contro la modifica della denominazione del Ministero dell’istruzione, ha cercato di motivare questa scelta, sottolineando che in fondo il merito è un valore costituzionale richiamato nell’art. 34 della Costituzione e come tale andrebbe apprezzato. Insomma ha cercato di coprire la spiegazione non proprio di alto profilo della Presidente del Consiglio, la cui fragilità ha dato solo conferma del non detto: quella parola evoca il desiderio di una scuola elitaria, classista, selettiva. La scuola “difficile”, dura, che deve valutare senza infingimenti le qualità e doti di ciascuno, dei meritevoli e dei de-meritevoli.
Rispondiamo al suo azzardo culturale con una pacata e appassionata riflessione del nostro maestro Alberto Alberti. Un po’ di storia e riflessione rialzerà il profilo, non del governo certo ma di una discussione che avremo ancora modo di approfondire.
Dario Missaglia
L’ottimo articolo/saggio di Massimiliano De Conca, L’inganno meritocrazia, pubblicato su “Articolo 33”, numero 2, aprile-giugno 2022, p. 48 e segg., oltre a darci una panoramica esauriente sullo stato dell’arte, per i suoi riferimenti alle istanze economiche e sociali, al mercato e alle sue implicazioni ideologiche, che stanno sotto alcune teorie e discorsi su “merito” e “meritocrazia” (la struttura, direi, sotto la sovrastruttura), sollecita interessi e provoca riflessioni. E mi spinge a pormi qualche domanda.
Questa per esempio. Dal momento che nel 1946-1947, gli anni in cui fu scritta la nostra Costituzione, con tutta evidenza non esisteva il sistema industriale avanzato di oggi, non vigeva la legge del mercato e l’ideologia conseguente, che oggi provoca e nutre il discorso sul merito, come mai, o meglio, in che senso i Padri Costituenti scrissero di “capacità e merito” nell’articolo 34?
Penso che una risposta la si possa andare a cercare nella condizione generale degli studi in Italia a quel tempo, o, più esattamente, nelle deficienze e nei ritardi in fatto di istruzione. Io non conosco i dati effettivi del 1946 o 1947, ma ci possono aiutare a capire la situazione quelli del Censimento del 1951. Da essi si ricava un livello di arretratezza oggi impensabile. La stessa scuola di base, l’elementare, non era frequentata pienamente. In più di 10.000 centri abitati, piccoli paesi e frazioni, quella scuola si fermava alla quarta classe, in altri 6.000, alla terza. Solo il 43% della popolazione aveva conseguito il titolo della licenza di quinta, il 34% non aveva alcun titolo di studio e il 13% non sapeva neanche mettere la propria firma. Se si considera che già Gentile nel 1923 aveva portato l’obbligo scolastico ai 14 anni, otto anni di scuola fra elementare, medie e professionali, si può dedurre che il 90% dei cittadini italiani era fuori legge in fatto di studio. Desolante poi la situazione degli studi superiori e dell’Università: solo l’1% (uno per cento) della popolazione possedeva una laurea e il 3% (tre per cento) un diploma secondario. Con la licenza della scuola media c’era soltanto un 6% (sei per cento)1.
Come facilmente si capisce, se questi sono i dati del 1951, non potevano che essere peggiori quelli del 1946 e del 1947, con la guerra ancora fumante alle spalle.
Occorre anche tenere presente che l’attività economica prevalente – esclusiva in certe regioni – era l’agricoltura, condotta con metodi antichi, non industrializzata, e perciò non richiedente istruzione scolastica, nemmeno quella basilare del leggere e scrivere. Per apprendere il mestiere di contadino, a un giovane o a un ragazzo bastava l’imitazione: andare nei campi e seguire quello che facevano i più anziani. Per certi versi l’agricoltura non solo non aveva bisogno di scuola ma perfino vi si opponeva. Leonardo Sciascia, maestro a Recalmuto, ancora alla metà degli anni Cinquanta, deve registrare che i contadini conducono i figli in campagna nei giorni di vacanza, «li fanno lavorare. A maggio non li mandano più a scuola [...] Hanno bisogno di aiuto per la raccolta delle fave»2.
In queste condizioni, pensare a una formazione secondaria di grado superiore per tutti era una astruseria, un azzardo, un miraggio. Nessun uomo ragionevole poteva lontanamente immaginarlo.
La formula «capaci e meritevoli» dell’articolo 34, doveva, perciò, avere a quel tempo un valore profondamente diverso da quello che possiamo attribuirle oggi. Le parole si caricano di significato in rapporto alla situazione concreta, storicamente determinata, che le sostiene e le utilizza. E quelle parole allora volevano essere solo una speranza, un invito, una sollecitazione. Quasi a dire: «Voi che non siete ricchi, né agiati, che avete bisogno di lavorare per mangiare, ma siete capaci e vi applicate con merito, venite a scuola! Anche alla scuola secondaria superiore sebbene non sia obbligatoria. Abbiamo bisogno di voi. Non vi sottraete a questo compito per mancanza di mezzi. Lo Stato vi aiuta. Non cercate alibi!».
Parlare di capacità e di merito non poteva essere altro che una sorta di sfida, un modo di sollecitare e stimolare l’orgoglio personale dei ragazzi e così conquistare nuove categorie all’istruzione superiore. Una preghiera ma anche un programma di politica scolastica.
Le classi superiori dell’epoca, i ricchi, i detentori dei poteri, le fasce di popolazione culturalmente forti, insomma tutte quelle famiglie che per loro spontanea iniziativa e per possibilità economiche potevano assicurare gli studi superiori ai figli, non riuscivano a fornire una congrua quantità di diplomati e di laureati, quella quantità di forza culturale necessaria alla vita e allo sviluppo della Nazione. Bisognava attingere ad altre categorie di soggetti. Capaci e meritevoli, intanto. Poi anche gli altri.
So bene che nella pratica scolastica di tutti i giorni quel binomio “capaci e meritevoli” è molto usato. Opportunamente sdoppiato e variamente parafrasato serve comodamente a insegnanti e osservatori per giustificare agli occhi dei famigliari gli insuccessi di qualche alunno. Quante volte abbiamo sentito dire: «è intelligente ma non si applica», «potrebbe fare di più se ci mettesse un po’ di buona volontà» e così via? Ma queste occorrenze empiriche non implicano quasi mai la definizione concettuale di “merito”. Sono formule comunicative di comodità, di senso comune, utili soprattutto a ingentilire i discorsi fra insegnanti e famiglie. Evitando di chiamare in causa le “capacità” (che potrebbero far pensare a deficienze e difetti personali di fondo, non provati e in ogni caso non dichiarabili), e spostando l’attenzione sulle modalità sempre emendabili del comportamento.
Il concetto di “merito”, nella sua autenticità e sotto il dominio della politica scolastica, è un’altra cosa. Riguarda la concezione che si ha della scuola e della sua missione e va rapportato alle situazioni storiche in cui si colloca il processo educativo.
Oggi le condizioni di vita, nel lavoro, nel tempo libero, nelle stesse attività domestiche, sono profondamente cambiate rispetto a quelle degli anni Quaranta. Il bene scuola è diventato negli anni una esigenza generale, in tutti i settori, anche nell’agricoltura sempre più industrializzata, e sebbene sia talvolta depotenziato e svilito, o coniugato in maniera difforme da quella canonica, nella musica, nello sport, nei media, nei social e nell’uso sempre più complesso dei mezzi digitali, resta in ogni caso un’esigenza fondamentale dell’uomo del duemila.
In questo nostro mondo, allora, il merito non è più un invito, una esortazione a venire alla scuola, un disegno di politica scolastica diretto ad ampliare la platea degli utenti. I ragazzi, i giovani a scuola ci vengono. Semmai poi vengono espulsi, proprio in nome del merito che perciò è diventato uno strumento di misura, un imperativo didattico. Serve non in se stesso, per quello che può significare o valere come motivo di accoglienza ed esaltazione dell’impegno personale, ma piuttosto come criterio di separazione. Non si tratta di stabilire una scala valoriale positiva. Si tratta di stabilire una presenza o una assenza.
Il merito o c’è o non c’è. Per di più, il non c’è è coessenziale al c’è.
Detto in altre parole, il merito in questa sua nuova natura didattica non può esistere se non insieme al suo opposto. Se non ci fosse demerito non ci sarebbe neanche merito perché tutto diventerebbe piatto, uguale, uniforme, indistinto. È il merito stesso che deve necessariamente, per la sua esistenza, creare il demerito. Non può farne a meno: lo crea e lo giustifica.
Ora, a mio parere, proprio in questa sua funzione creativa il merito non è una novità. Anzi è il male che ci portiamo appresso da decenni.
La scuola italiana tradizionalmente ha lavorato sul merito, promuovendo o bocciando in base al profitto o all’assenza di profitto. Solo a Barbiana il preferito era «chi era senza basi, lento o svogliato3. Ma Barbiana è una fiammata rivoluzionaria eccezionale. Tutti ne parlano bene ma nessuno la segue. Anzi ci affanniamo tutti a renderla un sogno irreale. A Roma gli istituti superiori più apprezzati sono quelli che bocciano più alunni. La serietà degli studi non è giudicata dalla qualità e dalla congruità della mediazione didattica ma dalla severità dei giudizi. L’inno al merito legittima le bocciature.
Così il merito, da quello che voleva essere nella Costituzione, un invito, una spinta all’accoglienza, un’idea di scuola accogliente e feconda, diventa una scure che divide e rende perfino giuste o almeno normali la discriminazione, l’emarginazione, l’evasione scolastica ancora così cospicua.
Per questo, a mio parere, non è giusto parlare allo stesso modo di quello che è scritto nell’articolo 34 della Costituzione e di quello che, come una moda, si va dicendo sul merito, in questi ultimi tempi e soprattutto in certi ambienti.
Alberto Alberti