Io non conoscevo Giulio Regeni. Mi ha però colpito che le vicende ancora oggi poco chiare legate alla sua drammatica morte sono riportate da tutti i quotidiani sottolineando la sua ammissione di paura.
Eppure proprio la sua morte testimonia, all’opposto, la vicenda di un giovane studente e ricercatore che ha interpretato fino in fondo la missione civile del suo lavoro di studio e ricerca, nonostante i suoi timori e le sue paure. Giulio avrà forse avuto timore nel seguire le drammatiche vicende egiziane, ma questo timore non lo ha trattenuto dal proseguire la sua ricerca e il suo impegno pubblicistico e politico.
Studente MPhil in Development Studies all’Università di Cambridge, Giulio era impegnato nello studio delle rivolte arabe con un approccio che univa etno-antropologia e studi politici attraverso il recupero dell’eredità del pensiero gramsciano.
Giulio era anche impegnato in un’intensa e difficile attività pubblicistica che rendeva i suoi interessi parte di un impegno più ampio a sostegno delle forze democratiche e progressiste in lotta in Egitto. Il Manifesto, quotidiano col quale Giulio ha collaborato con una serie di articoli pubblicati sotto pseudonimo, sottolinea come i suoi interessi fosseo legati ai movimenti sindacali: “era esperto di lotte sociali, in particolare del sindacato egiziano e, dottorando a Cambridge, di crisi dei modelli economici del Medio Oriente” (Tommaso Di Francesco, Tutte le verità, 5-febbraio 2014).
Giulio si trovava in Egitto come Visiting Student presso l’American University in Cairo, dando forse prosecuzione ad un progetto di studio che gli aveva fatto già vincere un piccolo premio messo in palio dal concorso Irse-Europa e Giovani 2012, dell’Istituto Regionale di Studi Europei del Friuli Venezia Giulia (si veda qui e anchequi) e che era forse lo sfondo dei suoi studi a Cambridge.
Non ho alcun elemento per valutare le ragioni e gli eventi della sua morte, ma Giulio è stato ucciso nel giorno del quinto anniversario delle cosiddette rivolte di Piazza Tahrir in un paese che è nuovamente piombato in un autoritarismo politico tanto più violento quanto più aumentano le tensioni internazionali.
Negli ultimi mesi abbiamo più volte pianto la scomparsa di giovani colleghi, come Valeria Solesin. La ricercatrice italiana assassinata al Bataclan, impegnata da ricercatrice precaria nello studio del mercato del lavoro oggi. Valeria ci ha lasciato un suo contributo al convegno Districare il nodo genere-potere: sguardi interdisciplinari su politica, lavoro, sessualità e cultura dal titolo Asimmetrie fuori e dentro il mercato del lavoro. Una comparazione tra Francia e Italia sui ruoli di genere e l’attività professionale (si veda qui).
Ma le cronache quotidiane sono, a ben guardare, piene di eventi che mostrano il peso della ricerca e del lavoro universitario quando queste diventano strumento di lotta civile e politica: basti in ultimo il caso dei docenti universitari turchi incriminati per aver firmato un appello contro la repressione del popolo curdo.
I casi di Giulio e Valeria, nella drammaticità delle loro storie, fanno risaltare la presenza di giovani studiosi che mettono le loro vite e passioni a servizio di tutti. Studiosi che interpretano e praticano la ricerca innanzitutto come presa di parola pubblica, come intervento sul presente, come speranza di cambiamento. Giulio come Valeria hanno scelto una vita di studio e ricerca che è anche impegno politico. Io voglio ricordarli così, come giovani studiosi che hanno compreso più di tanti molto più maturi di loro che la ricerca è anche un prendere posizione.Parlar franco, dire tutto, dire il vero