Sono drammatici e sconvolgenti i tanti video dei moltissimi bambini e ragazzini ucraini che con le loro mamme salutano i babbi e i mariti tra le lacrime, giovani uomini che tornano indietro per la loro resistenza in patria, dalla frontiera polacca o romena. Lasciano i loro bambini alle frontiere perché sopravvivano allo scempio, e perché continui la loro esistenza nel mondo.
Arrivano in Italia dopo viaggi rocamboleschi e faticosi. Non sono felici né si sentono in vacanza.
Sono solo 10 giorni dall’inizio della guerra e il loro mondo interiore e sociale è esploso in pochi giorni.
Ci sono due cose che si leggono nei loro occhi: il desiderio del ritorno e la sopravvivenza dei padri. Perfino la presenza di gatti e cani di casa assieme a loro segna questo drammatico dolore, che si vuole breve.
Bene ha fatto il Ministero dell’Istruzione a produrre presto una prima nota per attivare una loro accoglienza scolastica. Può essere un buon modo di dare un po’ di serenità e normalità a questi bambini, ma noi adulti italiani di scuola dobbiamo avere la consapevolezza pedagogica che siamo davanti ad un fenomeno inedito, cui non basta la nostra pur lunga esperienza di accoglienza di bambini stranieri.
Infatti questi bambini e ragazzi sono piccoli in fuga, non sono emigranti né intendono esserlo le loro madri se non per il tempo strettamente necessario al ritorno (speriamo presto) della pace.
Sono piccoli in fuga in tempi traumatici, la loro emotività segnala smarrimento, insicurezza, paura, nostalgia, perdita. Se vi pare poco. Eppure tutti i piccoli hanno anche doti di resilienza.
Le chiacchiere del dibattito politico, culturale, strategico non potranno consolarli né rispondere a breve.
Per esempio, come si fa a parlar di pace con la facile buona retorica di noi europei senza guerre sotto casa, mentre loro sono in attesa spasmodica della telefonata del padre che nella patria occupata combatte e conferma che è ancora vivo? Ancora, ma per quanto?
In questa drammatica prima fase del loro arrivo è necessario che le nostre scuole adottino un altro ben diverso punto di vista, non facile: l’ho chiamata una pedagogia del ritorno. È in parte simile a quella pedagogia della cura di cui ho scritto in questi mesi attorno al rapporto tra educazione e Covid, ma del tutto diversa negli esiti sperati. Non la “guarigione sanitaria”, ma il ritorno desiderato.
La pedagogia del ritorno
Non abbiamo alcuna sicurezza circa l’esito della guerra (è troppo presto), ma certo sia noi che loro speriamo che finisca presto e che torni un minimo di normalità, cioè che il loro ritorno sia possibile.
Dunque dobbiamo immaginare una prima fase dell’accoglienza di questi bambini e ragazzi, almeno questi primi mesi fino a giugno e la prossima estate, evitando errori palingenetici o inserimenti grossolani che tendano ad imitare quelli dei migranti economici.
Nella fretta dei pochi giorni dall’inizio della guerra, scrivo qui una primissima serie di proposte, anche molto pratiche, che ci aiutino ad aiutare questi bambini e ragazzi in modo generoso e giusto, evitando ingenue azioni di accoglienza superficiale. Una prima base essenziale di un pensiero più articolato di una pedagogia del ritorno che mi impegno ad approfondire in seguito, sulla base anche della mia lunga esperienza con i c.d. “bambini di Chernobyl”, ucraini e bielorussi, che per anni abbiamo ospitato nelle nostre scuole e nelle nostre case, con mie frequenti visite e attività, anche istituzionali, in quelle terre.
Le proposte qui brevemente presentate vanno fino a settembre 2022, cioè sei mesi da oggi, sperando che bastino per il loro destino. Poi, secondo come andrà, penseremo ancora a progettare il ritorno.
Imparare ad ascoltarli, non solo nelle parole ma anche negli occhi e nei gesti, sia loro che le loro madri. Abbracciarli con tutto noi stessi, senza alcun pregiudizio, capire la loro condizione senza le manie diagnostiche della moda presente. Sono bambini che soffrono, ovviamente, ma uno sguardo psico-pedagogico (l’Y CARE donmilaniano) è dentro la nostra anima professionale ed è nella gran parte dei casi sufficiente ad offrire loro una buona prima soglia di serenità e soprattutto comprensione.
Teniamo conto che provengono da luoghi molti diversi (es. città, campagna), da un garbuglio di religioni tutte cristiane ma diverse tra loro, che ognuno ha una sua storia particolare. Sono tutti uniti dalla fuga, ma sono identità ognuna propria. Da una regione ucraina all’altra il loro borsc (la tipica zuppa slava) è diverso, e come da noi ognuno pensa di fare quello buono e giusto.
Questa è una cosa piccolissima, perfino banale, ma di visibile alto valore civile e di solidarietà: in ogni scuola dove è accolto anche un solo bambino ucraino mettere la loro bandiera all’ingresso della scuola vicino alla nostra. Non sto parlando di “lavoretti” degli altri bambini da attaccare nelle aule, peraltro benvenuti. No, è il senso “pubblico” della nostra amicizia vera, senza confini.
Non è impossibile prevedere che, nella gran parte dei casi, sia possibile trovare in Italia cittadini ucraini che abbiano competenze pedagogiche. Molte madri fuggite coi figli sono insegnanti, lo erano anche le molte badanti ucraine presenti in Italia, ci può aiutare l’Ambasciata ucraina con un accordo intelligente che garantisca le essenziali qualità richieste. In questo modo potremmo realizzare in poco tempo un “gemellaggio pedagogico” facilitato nella lingua e nella conoscenza della loro organizzazione scolastica.
Io penso sia necessario assumere a tempo docenti ucraini come veicoli di scolarità e di connessione con i nostri ingegnanti. E assieme a loro costruire una pratica di accoglienza didattica intelligente, evitando processi di imitazione tout court dei nostri modelli didattici, ma prevedendo ibridazioni se utili e la continuità massima possibile con il loro curricolo per garantire il ritorno.
La scuola ucraina, infatti, è diversa ed ha una sua tradizione pedagogica. Si chiama scuola unificata la formazione obbligatoria di 12 anni per tutti che si suddivide in tre sotto-cicli: i primi 4 anni “primari”, i secondi secondaria inferiore (5 anni), i terzi secondaria superiore (3 anni) articolata in diversi indirizzi o con la formazione professionale. Gli esami avvengono alla fine della classe 9 e poi quelli simili alla nostra maturità nella classe 12. Dunque i giovani ucraini vanno all’università a 18 anni. Normalmente gli istituti scolastici urbani hanno tutte le 12 classi, garantendo un’invidiabile continuità, eccetto le articolazioni dopo la classe 9 per l’area professionale, che è molto sviluppata anche dopo la classe 12.
Dal punto di vista didattico e organizzativo, la tradizione pedagogica è sufficientemente attivistica. Centrale è la laboratorialità; dalla classe 5 i ragazzi fanno lezione nei diversi laboratori gestiti da ogni singolo insegnante, cambiando quindi ora per ora aula. L’immagine degli insegnanti è stimata, solo a loro i bambini e i ragazzi danno il patronimico, ormai quasi desueto nei paesi post URSS. La scuola è considerata cosa seria e anche comunità. Sono frequenti le feste collettive: si pensi al primo giorno di scuola (e si ricordi la ferita di Beslan) o alla consegna a giugno della spravka (la maturità) con una festa che dura per tutta la notte.
Mediamente, gli studenti ucraini hanno buone competenze digitali, apprendono con sorprendente facilità le lingue straniere. Fanno molto sport (non educazione fisica generica) e molti suonano strumenti musicali.
Dunque, la mia proposta in questa fase eccezionale è di realizzare il più possibile classi o pluriclassi con alunni ucraini, con la presenza di insegnanti ucraine e con un’integrazione per tutte le attività che si ritengano utili con i coetanei italiani della scuola, anche in forma di mutualità e scambio. La presenza di bambini e ragazzi ucraini (serve a dirlo?) è anche per i nostri studenti italiani un’esperienza educativa e civica importante. Per ora non vorrei dettagliare la proposta dal punto di vista didattico e organizzativo, e affido invece con fiducia alla libera e creativa autonomia delle singole scuola (finalmente) la possibilità di sperimentare pratiche educative integrate a tutto spettro.
Potrebbe aiutare la pedagogia del ritorno la predisposizione di un sito web ucraino di materiale didattico utile agli studenti e agli insegnanti.
Dobbiamo fare in modo che i bambini e i ragazzi tornino a scuola in primis “per non perdere l’anno”. Non sembri strano o esagerato questo obiettivo: davanti alle catastrofi in patria, finire l’anno scolastico il meglio possibile è un pezzetto di vita che rimane vivo e un pezzo importante per il ritorno. Come si possa fare non mi pare impossibile: si possono trovare accordi e adattamenti di prosecuzione degli studi, anche con esami ad hoc svolti secondo le regole ucraine. Per l’inserimento dei ragazzi ucraini nelle diverse scuole, si deve fare una relazione tra sistema scolastico italiano e quello ucraino. Dobbiamo quindi approfondire e tarare l’accoglienza secondo l’età dei ragazzi e la loro storia scolastica.
Questo significa per me che almeno per quest’anno si debba provare a realizzare classi ucraine integrate a quelle italiane, con la presenza comune di docenti ucraini e italiani. La flessibilità didattica garantita dall’autonomia scolastica rende possibile molte diverse opzioni, anche per diverse discipline. La possibilità di svolgere anche attività in comune tra studenti ucraini e italiani è un bene comunque per tutti, anche per gli stessi italiani, per uscire anche noi dal nostro provincialismo.
L’estate prossima è un’ulteriore opportunità di accoglienza e di una doverosa sinergia tra scuole e risorse del territorio, dagli enti locali al mondo associativo. Essa è necessaria comunque perché i nostri territori saranno coinvolti in molti aspetti nella gestione dell’accoglienza. Ma nel nostro caso l’estate apre spazi di impegno per natura integrato tra le diverse risorse locali, secondo la logica dei patti di comunità, che avrebbe questa volta un significato pregnante nel suo valore civico e sociale. Dare un po’ di estate in tutti i modi felice a questi bambini e ragazzi mi pare un impegno sociale primario. I ragazzi ucraini vanno normalmente in campi di vacanze detti (ahimè) “lager”, partecipano ad attività naturalistiche.
Per realizzare il meglio possibile questa accoglienza serve una forte capacità di governance orizzontale tra i diversi soggetti sociali del territorio, dalla scuola agli enti locali alla società civile.
Ma serve anche un convinto agire della politica italiana verso le autorità ucraine, a partire dalla loro Ambasciata in Italia, per facilitare la realizzazione di un’accoglienza che sappia pensare al futuro del ritorno.
E anche della comunità europea, in cui l’Italia potrebbe essere questa volta un buon esempio virtuoso.
Mi fermo per ora qui, sperando che queste prime proposte-provocazioni favorisccano un ragionamento collettivo e pubblico su questa dolorosa esperienza educativa, per la quale serve l’Italia migliore.
Raffaelel Iosa
8 marzo 2022