Associazione professionale Proteo Fare Sapere
07 giugno 2022

La retorica della “povertà educativa“, il conflitto che avanza e le nostre responsabilità – di Dario Missaglia, presidente nazionale Proteo Fare Sapere

La dichiarazione del 19 maggio scorso del Presidente di “Save the Children”, Claudio Tesauro, relativa a un supposto 51% di quindicenni incapaci di leggere un testo e quindi affetti da “abbandono scolastico implicito”, ha trovato numerosi censori e critici nel mondo della scuola e della università.

Confrontando i vari indicatori disponibili dalle tante ricerche sul campo (dati Ocse, Pisa, Invalsi), la bufala è emersa in tutta la sua evidenza. Diversi e autorevoli interventi di noti esperti (Cristiano Corsini, Christian Raimo) hanno fortemente corretto la tesi proposta, senza nascondere le criticità che continuano a segnare la nostra scuola. Anche Openpolis, che utilizza e condivide appieno le stesse categorie interpretative di Tesauro, presenta, senza polemizzare direttamente, ben altre cifre sul disagio e la dispersione scolastica. Un errore statistico dunque?

Niente affatto. Quella uscita è chiarissima nel suo fine ultimo: confermare tutta l’ideologia che sostiene e rinforza i concetti di “povertà educativa” e “fallimento educativo”, concetti che sempre rifacendosi alle elaborazioni della stessa associazione e al suo poderoso apparato finanziario e tecnico, sono l’esito di un incrocio di parametri “oggettivi” relativi al contesto socioeconomico (analiticamente decritto con dovizia di dati e particolari) in cui è collocata la stessa istituzione scolastica. Intervenire per quanto possibile sui fattori più critici di contesto in cui vivono le sfortunate vittime della povertà educativa produrrà certamente il risultato atteso di ridurre il fenomeno. Come? “L’utilizzo dei fondi PNRR e UE sono la strada giusta”, afferma Tesauro con una dichiarazione che è di per sé illuminante.

Questa curiosa  neo-categoria interpretativa non ha storia (risale al 2014) e non si confronta con la storia: Tullio De Mauro l’avrebbe fulminata sul campo ricordando i meriti di tanti insegnanti che in decenni di politiche scolastiche da dimenticare hanno comunque aiutato l’Italia e la democrazia a crescere; eppure questa categoria interpretativa ha registrato un successo significativo trasversale che dovrebbe far riflettere anche sulla attuale debolezza delle culture riformatrici, ferme al palo da troppo tempo  e ancora in grande difficoltà nel ritrovare un pensiero forte che orienti le scelte che servono per  affrontare i limiti del sistema di istruzione.

Se penso a Don Milani, Bruno Ciari, Célestin Freinet, Mario Lodi, Loris Malaguzzi, Albino Bernardini, Andrea Canevaro, non ho mai trovato nelle loro parole qualcosa che potesse ricondurre alla povertà educativa dei bambini e ragazzi cui si dedicavano. Nell’affermare la forza di un diritto costituzionale conquistato a gran fatica nel nostro Paese, la povertà educativa, per loro stava altrove: nella scuola che seleziona, nei contenuti di un insegnamento che parlava a pochi, nelle pratiche valutative che punivano i più deboli, nella scuola ridotta a norme e burocrazia, nelle politiche che dimenticavano le scuole e chi ci lavora. Questa è la vera povertà educativa contro cui si scagliavano ed erano orgogliosi di quei ragazzi ribelli, incolti, indisciplinati, a volte anche timidi e isolati, ma pronti a capire chi entrava nel loro mondo per prendersene cura e accompagnarli nella scoperta della conoscenza che rende liberi.

Da questa loro potenzialità bisogna ripartire e non dalla somma delle loro supposte debolezze, limiti e carenze.

Penso che Paulo Freire, che nell’educazione vedeva un percorso di liberazione della persona, avrebbe tuonato contro una cultura compassionevole che fa dei ragazzi i destinatari assistiti da qualche pietistico servizio; oggetti di una cultura “depositaria” da estirpare dalle pratiche didattiche di una pedagogia democratica.

Non sarà dunque la strategia della povertà educativa a sventare questi rischi perché in essa non c’è la storia della scuola e dei sui protagonisti. È una categoria regressiva che va contrastata perché trasforma la scuola in “oggetto” di intervento anziché valorizzare quanto di buono la scuola fa o dovrebbe fare. E allora quell’allarme sul “fallimento educativo” della scuola, al di là delle vere percentuali, evoca scenari e intenti molto concreti e inquietanti.

Perché se la scuola non ce la fa, ed è questo il presupposto dell’analisi, “bisogna  aiutarla”. E ogni frammento del terzo settore può contribuire con un proprio progetto da realizzare nelle scuole, con l’obiettivo umanitario di ridurre la povertà educativa.

Ma in questo progetto c’è un vuoto enorme; non solo non c’è la scuola, con i suoi insegnanti, dirigenti e ata; non c’è soprattutto l’obiettivo del cambiamento della scuola che è la condizione necessaria per fare in modo che tutte e tutti, senza eccezioni, possano realizzare i migliori esiti formativi possibili. Non basta, non serve ed è deformante l’idea che “aggiungere” alla scuola così com’è qualche corso, attività, esperti esterni, prolungamento d’orario, possa di per sé costituire una strategia efficace contro la dispersione.

La scuola non si cambia con aggiunte dall’esterno, va cambiata “dentro” e per raggiungere questo obiettivo serve anche una partecipazione sociale che chieda e rivendichi questo cambiamento, lo supporti, lo arricchisca, costruisca alleanza con le forze che dentro le scuole condividono e si battono per quel cambiamento. È quella positiva energia sociale che abbiamo conosciuto negli anni ‘70, sospinta dallo slancio di tanti Comuni, dei sindacati, delle associazioni, del volontariato. È questo il “territorio” di cui ha bisogno la scuola, perché non sono tollerabili oltre i giovani che abbandonano la scuola, le bocciature, la demotivazione allo studio di troppi studenti.

Dentro queste premesse esplicite ben vengano tutti i migliori contributi dal territorio, in un quadro concordato, con una chiara regia delle scuole perché è urgente la necessità di un salto di qualità della scuola e degli esiti formativi dei giovani e questo sarà possibile soltanto costruendo ponti e alleanze virtuose con chi è interessato davvero al cambiamento della scuola e soprattutto modificando in profondità l’assetto, il funzionamento, l’organizzazione e i contenuti della didattica. Ma per realizzare questo obiettivo serve prioritariamente una nuova capacità di proposta da parte delle forze che vogliono costruire il futuro della scuola pubblica per l’inclusione di tutti. Non è più tempo di rinvii e nessuna difficoltà reale può diventare alibi.

Serve un nuovo slancio per praticare l’autonomia sempre disattesa fuggendo la tentazione della chiusura corporativa, dell’affidamento alla rassicurante gestione burocratica del ministero, della delega ad altri. Non è detto che questo territorio fatto di comunità sia immediatamente disponibile: se non c’è deve partire proprio dalla scuola la ricostruzione dei legami sociali recisi da un modello sociale che ha spinto all’individualismo, alla competizione rabbiosa, alla crescita delle diseguaglianze e la perdita della solidarietà. Lo stesso modello sociale che ammicca alle ambizioni di supposti governatori in cerca di più poteri o di interessi privati a caccia di finanziamenti pubblici. Un modello in cui non conta la costruzione di nuovi legami sociali, i corpi intermedi e la paziente fatica della democrazia partecipativa.

Un modello che non vuole cambiare la scuola perché ha compreso che può prosperare proprio sui limiti della scuola stessa. Lasciandola intatta nei suoi meccanismi di classe, si propone si sostituirla nelle sue funzioni sociali più delicate. Alla scuola che c’è lasciamo pure i compiti, le interrogazioni, i voti, la lezione e la centralità “del programma”. Tutte le Mastrocola d’Italia saranno liete. La cura, l’integrazione, l’accoglienza, il sostegno, il disagio, tutto ciò che per i “professori puri” è perdita di tempo e non scuola, vada ai volenterosi esperti esterni. I ceti dominanti sono serviti. C’è un inedito e pericoloso pragmatismo, cinico e distruttivo, che pervade questo pensiero che per la prima volta si affaccia sullo scenario della politica nella scuola. In questa idea di scuola infatti, i conflitti, la sfera sociale, il movimento dei lavoratori, scompaiono d’incanto, non contano.

Come non conta che i soggetti che nella scuola lavorano e ricercano le strade per un cambiamento, vengano almeno sentiti, coinvolti, in un confronto a tutto campo sulle misure da adottare. La povertà educativa nasce come categoria interpretativa nel 2014; Giuseppe Di Vittorio la povertà senza aggettivi la contrastava già nella metà del ‘900, collocando il movimento dei lavoratori nella battaglia per una società più giusta. Quella stessa battaglia da cui è nata la scuola della Repubblica.

Oggi questo Governo e il Ministro Bianchi non avvertono neppure il “dovere” quantomeno di confrontarsi con chi ha questa storia alle spalle. E trovo ad oggi  clamoroso il silenzio della Commissione per  la definizione delle linee di intervento contro la dispersione  scolastica, su questa scelta politica. Evidentemente c’è fretta di arrivare all’obiettivo che sono i miliardi disponibili con il PNRR. Il Patto di Napoli per la scuola è stato l'eloquente anteprima.

Spero vivamente che il Ministro, tanto più in una fase di rinnovo contrattuale segnata da un conflitto che ha visto già uno sciopero importante della categoria, voglia evitare un aggravamento delle tensioni. La battaglia per una scuola migliore, aperta, partecipata e di qualità per tutti, dovrebbe essere una grande impresa collettiva delle migliori forze del Paese, nell’interesse generale del futuro dei giovani, della democrazia e del benessere.

Diversamente, sia ben chiaro, si preparerà la più dura lotta di autunno che la scuola pubblica ricordi. E non sarà soltanto lotta di opposizione ma anche di proposta.

 

Dario Missaglia
Presidente nazionale Associazione Proteo Fare Sapere