Francamente non riesco a pensare a un “ritorno”. C’è una profonda inquietudine che mi resta addosso. Non è solo l’angoscia della morte e del dolore che abbiamo tutti sentito.
Abbiamo visto medici e infermieri pagare un prezzo altissimo al loro senso del dovere, a un rapporto con il lavoro che resta un mistero se non si coglie il fatto che al centro di ogni loro azione i medici hanno messo le persone che avevano di fronte, le loro storie, la paura che segnava i loro volti, la fiducia in quelle mani, le uniche alle quali affidavano la speranza di vita. E abbiamo sentito, acuta, la disperante cecità di un sistema del profitto e della convenienza, che in questi anni ha chiuso strutture pubbliche e ridotto i posti letto, ha finanziato una sanità privata per una salute a pagamento, ha decimato gli organici dei medici, ha annullato quella ricerca scientifica di base che è la vera ricchezza per il futuro e che avrebbe potuto forse dirci qualcosa anche di questa pandemia. E l’Autorità sanitaria tace.
Ma la stessa Autorità parla eccome, con le regole che hanno segnato la vita di questi due mesi: distanziamento sociale, concetto inquietante che rimanda a una idea di diffidenza, distanza, sospetto, isolamento, segregazione; marginalità dei più anziani e dei bambini. Diritti costituzionali sospesi. Certo, non per una congiura politica, ma per una vera emergenza sanitaria. Ma è mancata la reiterata e quotidiana dichiarazione che di questo si trattava; che era una misura così grave da dichiararla subito transitoria nel momento stesso in cui la si affermava necessaria. Silenzi inquietanti. Quando il rispetto delle regole, imposte per necessità, rischia di produrre il conformismo sociale, si apre uno squarcio pericoloso nel civismo e nel profondo della democrazia. E questo è certamente accaduto. Anche nell’epoca del coronavirus l’obbedienza non è una virtù.
E poi l’Autorità sanitaria si è resa responsabile di troppi silenzi. È scomparsa drammaticamente l’infanzia; non una parola, un pensiero, un supporto, anche a distanza, a milioni di famiglie che si sono viste costrette a condizioni impensabili; i più deboli hanno pagato un prezzo altissimo, di disagio, tensioni, difficoltà economiche e di relazione. Hanno percepito l’aggravarsi delle loro condizioni e l’acutezza delle diseguaglianze in crescita. Non una parola ai bambini che hanno respirato ansie, paure, angosce, perdite e separazioni affettive. Non una parola sulla scuola che
chiude le porte agli studenti; c’è voluta la sensibilità del Presidente Mattarella, infine, a ricordare al Paese che era stato sospeso non un servizio sociale, non una importante infrastruttura, ma il luogo in cui ogni giorno le generazioni si incontrano e costruiscono il futuro del Paese: la struttura più terapeutica del Paese, potremmo dire.
E c’è voluto l’impegno, la creatività e l’entusiasmo di tanti docenti a far vivere la nostalgia della relazione, del contatto, della vicinanza, senza le quali non può esistere la relazione tra chi insegna e chi apprende. Come si fa a non cogliere questa centralità e perdersi nella vacua pubblicità ministeriale, con annessa polemica di ritorno, della glorificazione della DaD?
Non voglio dare letture forzatamente politiche e neppure contestare le misure sanitarie specifiche che il coronavirus ha imposto. Mi colpisce l’assenza di qualsiasi sfumatura psicologica e pedagogica della comunicazione sanitaria, la lettura medico/meccanicistica della pandemia e dei processi che ha innescato. Quella stessa medicalizzazione che avevamo già osservato in altri ambiti in cui il difetto, il limite, la diseguaglianza è malattia, svantaggio, handicap. La diseguaglianza come malattia è decisamente più tranquillizzante della diseguaglianza come esito delle responsabilità politiche. La riduzione a malattia virale della pandemia è stata il lasciapassare per la emanazione di regole e vincoli cui obbedire passivamente, senza mai neppure aprire timidamente a una riflessione più ampia sulle condizioni della sanità del nostro Paese e sui modelli di vita e di economia che segnano la storia delle malattie. Renzo Canestrari, nelle sue indimenticabili lezioni agli studenti di medicina e chirurgia dell’Università di Bologna nel 1975, scriveva: “... L’uomo e la
sua malattia possono essere compresi solo parzialmente da una impostazione di studio a carattere meccanicistico;… La scuola medica ha considerato l’uomo come un genere particolare dei mammiferi superiori”. In sostanza, l’approccio meccanicistico alla pandemia ha trasformato tutti noi in oggetti, non soggetti di una tragedia dalle mille sfaccettature psicologiche e sociali. Ecco perché di fronte al “ritorno” dobbiamo fuggire da ogni rischio di meccanicismo e subalternità a dettami indiscutibili delle autorità sanitarie. Dobbiamo essere capaci di “condizionamento educativo” nel dibattito dei prossimi mesi, essere soggetti attivi del ritorno e non riceventi passivi.
Basterebbero questi pensieri per dire che di fronte a noi non c’è un ritorno, non c’è quanto ben riassumeva la indimenticabile battuta di Enzo Tortora, dopo indicibili sofferenze: “Dunque, dove eravamo rimasti?”.
Dobbiamo pensare a quanto è accaduto in profondità in questi due mesi nella società, nella vita delle persone, nelle relazioni sociali, nell’ambiente; dobbiamo chiederci come ricominciare, quale modello di sviluppo e di lavoro dobbiamo progettare perché siano le persone, la loro vita in sicurezza, la libertà e i diritti fondamentali al centro delle politiche. I docenti devono raccontare e raccontarsi su cosa è successo quando improvvisamente si è interrotta la loro relazione educativa, quando hanno preso telefono o pc per avere un contatto con i loro studenti, far sentire loro di esserci, del bisogno di non perdersi, di mantenere un filo. Cosa hanno percepito dal contatto con i loro studenti? Come immaginano di ritrovarli quando finalmente ci si potrà di nuovo incontrare a scuola: di quali ansie, paure sarà utile parlare tutti insieme, quale sarà il modo non solo più sicuro ma anche più caldo, accogliente, per sedersi, posizionarsi in gruppo? Come riprendere l’attività didattica? Potremo approfondire e conoscere di più, anche in altre parti del mondo, questo
fenomeno della pandemia? Torneremo a fare didattica delle discipline o attraverso le discipline ad approfondire i grandi problemi della vita e della storia del pianeta? Cercheremo di capire tutto questo anche attraverso il contributo che potrà fornirci il questionario che, insieme alla FLC CGIL, nei prossimi giorni diffonderemo in un certo numero di istituti.
E poi, perché già questo si preannuncia, se dovessimo fare i conti con una parte di attività “a distanza”, come organizzare l’offerta didattica? Che cosa abbiamo imparato in questi due mesi di apprendistato volontario e spontaneo? Di che cosa ci dobbiamo liberare e che cosa invece merita di essere preservato e coltivato? Con quali strumenti? Come rispondere alla domanda di chi non ha mezzi, strumenti, connessioni, spazi, genitori disponibili? Orari differenziati? Luoghi e spazi sicuri anche fuori dalla scuola? Un supporto ben fatto utilizzando anche nei locali scolastici la teledidattica su cui sono in corso ingenti investimenti da parte del Ministero? E come rispondere a chi non deve riprovare la distanza, pena ulteriori sofferenze, penso ai più deboli, ai nostri alunni con disabilità? Per tutti loro deve valere il detto di Don Milani “Non c’è nulla di più ingiusto che dividere in parti eguali ciò che è diseguale”. Dovremo lavorare con classi ridotte di numero o con laboratori dove transitano piccoli gruppi di alunni? Risposte da cercare.
Non parlo delle risposte politico/sindacali a queste domande; risposte che restano certamente fondamentali. Penso all’urgenza di un protocollo nazionale per la sicurezza di tutti i luoghi dell’educazione, istruzione, formazione e ricerca; penso, come ha sottolineato di recente Gennaro Lopez, a una battaglia perché le spese per scuola, università e ricerca, indispensabili per potenziare gli organici e la formazione, siano considerate spese per investimenti; penso a un piano
di interventi leggeri, ma urgenti di edilizia scolastica. Tutte queste sono conquiste da acquisire. Priorità indiscutibili.
Di pari passo quelle domande attendono anche risposte di natura professionale, quelle che non possiamo chiedere ad altri se non a coloro che nella scuola e per la scuola operano con la consapevolezza che dobbiamo rileggere questa dura esperienza per innovare in profondità contenuti, metodologie e organizzazione del lavoro.
Risposte da ricercare scuola per scuola, discutendo insieme, docenti e personale della scuola, studenti, genitori, le risorse vive del territorio. Il nuovo spazio dell’autonomia inizia da questa nuova pagina da scrivere insieme. Alla ricerca di queste risposte dedicheremo, con i mezzi a nostra disposizione e con la collaborazione di quanti condividono la nostra passione civile e politica, il nostro impegno.
Dario Missaglia
Presidente nazionale Proteo