Il 3 ottobre del c.a. Papa Francesco ha voluto firmare la sua terza enciclica, Fratelli tutti, sulla tomba di S. Francesco, ad Assisi. L’occasione, davvero eccezionale per la forza dirompente del messaggio, ci spinge a segnalare un articolo di David Baldini, già comparso nel 2018, sul numero Luglio-Agosto di Articolo 33 dal titolo Fraternité: l’eterna “parente povera” della triade del 1789.
La ragione della riproposta è da ricercare in una sola ed esclusiva ragione: quella di voler modestamente ribadire, da una prospettiva diversa, il grande significato connesso all’dea di fratellanza - la “parente povera della grande triade dell’89” -, che solo un Papa come Francesco è stato in grado di sottrarre – da un punto di vista cristiano – all’oblio della storia, per innalzarla a valore universale per i tempi davvero difficili nei quali ci è toccato di vivere.
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino
28 agosto 1789
Art. 1
“Gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”.
Dichiarazione universale dei diritti umani proclamata dall’ONU
10 dicembre 1948
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Albert Soboul, poco prima del crollo del muro di Berlino, abbandonando l’ordito evenemenziale a tutto vantaggio di quello ideale, in Storia della rivoluzione francese non mancava di osservare: [1] “Se la libertà non è nulla senza l’uguaglianza, se la libertà senza eguaglianza è solo privilegio di pochi, che cosa sarà l’eguaglianza senza fraternità?”.
Nello stesso torno di tempo Mona Ozouf – autrice e curatrice insieme a François Furet del miscellaneo ed “enciclopedico” Dizionario critico della Rivoluzione francese – si poneva all’incirca la stessa domanda: “Nella triade di astrazioni che compongono – ella scriveva – ciò che Pierre Leroux chiamava ‘il sacro motto dei nostri padri’ la fraternité, ultima nata, è anche la parente povera e la meno usata, se dobbiamo credere ai rari storici che si sono cimentati in questa sorta di conteggio. È anche la più tardiva, secondo Aulard, il quale distingue tre ondate nell’uso dei concetti: fino al 10 agosto 1792 trionfa la liberté, poi è la volta dell’égalité; con la dittatura montagnarda viene il momento della fraternité: è quella che immerge meno profondamente le sue radici nel pensiero dei lumi. Si può fare una storia delle idee di liberté, o dell’idea di égalité nel XVIII secolo; è invece meno facile fare la storia della fraternité”.
Osservata da questa prospettiva, la celebre triade non faceva che confermare, oltre alla sua natura utopistica, anche la sua asimmetria rispetto agli altri due principi. E questo per almeno due ragioni.
La prima, come è stato messo in luce dalla Ozouf, è per l’appunto di natura cronologica, essendo la fraternité comparsa tardamente nel processo rivoluzionario rispetto alla liberté e alla égalité. Si pensi che l’immortale principio, solo qua e là accennato nei cahiers de doléances, è del tutto assente nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Esso fa la sua timida comparsa in un articolo aggiuntivo inserito nella Costituzione del 1791, per poi nuovamente eclissarsi nella Costituzione del 1793. Sarà ripreso – nella sua originaria accezione – solo in seguito, per essere finalmente inserito nella Costituzione dell’Anno III, notoriamente censitaria e borghese.
La seconda ragione, invece, è di natura semantica. La fraternité, ben lungi dall’essere trattata come una questione d’ordine giuridico, fu sempre fatta rientrare nella più ampia – e generica – sfera dei “valori”. Percepita come dovere ed obbligo morale, essa doveva apparire, agli occhi dei più, come contigua – o anche sovrapponibile – a una concezione cristiana o massonica della vita. A tale proposito c’è però da osservare che la Ozouf, sulla scorta di quanto già sostenuto da François Aulard, non mancava di suggerire la presenza di una terza radice presente nella fraternité, questa volta specificamente “di sinistra”. La studiosa francese, infatti, osservava che il termine, “nato al club dei cordiglieri”, “era prediletto dalle società fraterne che erano la culla della sanculotteria”.
La fraternité dunque, per quanto “parente povera” della celebre triade, si prestava a una lettura polisensa, venendo riconosciuta come collante atto a garantire l’unità della nazione, soprattutto in occasioni di particolare rilievo: la festa delle Federazioni, la mobilitazione contro il nemico esterno e interno, la presenza della disgregazione sociale, etc. Non a caso, nella Costituzione del 1791, al titolo I, essa era stata declinata in senso eminentemente patriottico: “Saranno stabilite delle feste nazionali per conservare il ricordo della Rivoluzione francese, mantenere la fraternità fra i cittadini e legarli alla patria e alle leggi”. [2]
Se ne deve allora concludere che la fraternité sia un valore sì nobile, ma non essenziale, buono tutt’al più a edificare, o imbonire, le coscienze? La risposta è ovviamente no, se è vero che uno studioso del valore di John Rawls, pur attribuendole un ruolo subalterno, finisce poi per confermarne la centralità: “Nel confronto con quelle di libertà ed eguaglianza, l’idea di fraternità – egli scrive – ha sempre avuto un ruolo secondario nella teoria della democrazia. La si pensa come un concetto meno specificamente politico degli altri, poiché non definisce di per sé alcuno dei diritti democratici, ma include piuttosto certi atteggiamenti mentali e certe linee di condotta senza le quali perderemmo di vista i valori espressi da quei diritti”. [3]
Tale verità, del resto, ci è ben conosciuta. Basta, a tale scopo, ripercorrere le tragiche esperienze che hanno segnato la civiltà europea nella prima metà del secolo scorso, quando la scomparsa – per fortuna momentanea – della fraternità – a causa di guerre e stermini – ne ha fatto riemergere l’estremo bisogno.
Ma c’è di più: la fraternité, nonostante la sua ambivalenza, ci è oggi necessaria in virtù della sua natura “politica”, in quanto “arma” di contestazione degli sfruttati verso il sistema capitalistico. Ha scritto a tale proposito Alberto Martinelli: “Il concetto di fraternità è fondamentalmente estraneo sia alla democrazia liberale, sia all’economia di mercato. Corrisponde a un meccanismo pre-moderno di integrazione sociale e di identificazione collettiva, che trascende sia il citoyen che l’homo oeconomicus. La fraternità interferisce, infatti, con il meccanismo di mercato, che opera sulla base della razionalità utilitaristica e della libera circolazione dei fattori di produzione, e può entrare in contrasto anche con la democrazia rappresentativa che postula una rigida eguaglianza formale di diritti e di doveri. Non è un principio liberale, ma cattolico e socialista”. [4]
Ebbene, proprio partendo da queste premesse, il Martinelli, poi chiariva ulteriormente che “la fratellanza universale di uomini e donne” gli appariva meno utopica che in passato. Egli ad esempio la individuava giustamente nella “crescente interdipendenza economica e culturale dei popoli della terra” e nella “minaccia costituita dalla morte atomica e dal disastro ecologico”, veri punti cruciali del mondo attuale.
A conclusioni non molto diverse, del resto, era giunta la stessa Ozouf, la quale, dopo aver proceduto a una ponderata disamina ideologica delle posizioni di Jules Michelet e Louis Blanc, all’incirca negli stessi anni scriveva: “La fratellanza rivoluzionaria, applicazione della democrazia alla totalità della vita sociale, depone a favore piuttosto dell’affinità fra il socialismo e la democrazia che non del loro antagonismo”.
Potrebbe dunque la fraternité, concepita in chiave laica e socialista, essere il valore “nuovo” del terzo millennio, quello che, finalmente uscito di minorità, potrebbe mettere in grado gli Stati dell’Occidente di fronteggiare – governandoli politicamente – i complessi processi oggi in atto, primo fra tutti quello delle migrazioni?
Del resto, al di là dell’aspetto politico, il tratto “sentimentale” connesso al termine fraternité ci è noto fin dal 1789. Esso è infatti passato alla storia come “il bacio di Lamourette”; episodio che così è stato riassunto dallo storico americano Robert Darnton: [5] “Il 7 luglio [1792] i deputati dell’Assemblea sembrano prossimi a scannarsi l’un l’altro. Le polemiche sono diventate così aspre che nessun consenso può unirli e nessuna opposizione può esibire senza essere tacciata di tradimento. L’esperimento della monarchia costituzionale sembra destinato a fallire, condannato all’autodistruzione, e il dibattito parlamentare non fa che peggiorare le cose. A questo punto, nel pieno della disputa Lamourette si alza. Ha una soluzione da proporre: l’amore. L’amore fraterno. L’amore può lenire qualsiasi ferita, superare qualsiasi barriera. Il nome stesso dell’oratore basta di per sé a proclamare il messaggio, e la risposta dei deputati è immediata. Si abbracciano, si baciano, si scambiano giuramenti di fraternità. Chiamano in causa anche il re, che giura a sua volta. La Rivoluzione è salva: Vive la nation! Vive le roi!”.
Ci chiediamo: fatta la tara della retorica e della “teatralità” dell’evento, non riconosciamo anche noi che il sentimento della fraternité, al di là delle riserve “sentimentali” che suscita, rappresenta pur sempre la parte migliore di noi stessi? E secondariamente: gli slanci effusivi del “cittadino” Lamourette non ci sollecitano forse – proprio in virtù della loro carica utopica – a tentare di migliorare moralmente e civilmente noi stessi, nonostante le tante dimostrazioni di cui è sempre stata larga dispensiera la storia?
Quando la situazione si fa critica, avvertiva Niccolò Machiavelli, è buona norma richiamarsi ai principi. Richiamo, questo, quanto mai necessario oggi, tempi di mutamenti e di “bibliche” migrazioni di popoli, a causa delle quali ognuno di noi deve fare i conti con la sua propria umanità, costretti come siamo a fare i conti con i tanti seminatori di paura e di odio razziale, i quali, con le loro parole e le loro azioni, tentano di renderci peggiori di quanto in realtà non siamo.
Ci sono riusciti una volta, nel corso della prima metà del Novecento, con i fascismi e il genocidio, non permettiamo che ci riescano una seconda.
[1] A. Soboul, Storia della rivoluzione francese, Rizzoli, Milano 1988.
[2] A. Saitta, Costituenti e Costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale, Giuffè, Milano
1975.
[3] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982.
[4] A. Martinelli, I principi della rivoluzione francese e la società moderna, in Progetto ’89, Il
Saggiatore, Milano 1989.
[5] R. Darnton, Il bacio di Lamourette, Adelphi, Milano, 1994.