Il dibattito che si è aperto intorno al tema della cosiddetta dispersione scolastica, promette bene. Si fa per dire, non certo per le decisioni ministeriali, palesemente improvvisate e discutibili su una materia che invece richiede conoscenze fini, chiarezza, pubblicità dei criteri e verifiche con i soggetti del territorio. È importante ora che i Comuni in primo luogo, insieme alle forze sociali e ai sindacati della scuola, verifichino le priorità, educative e sociali, su cui investire.
Il dibattito promette bene, forse, perché chiama un po’ tutti a riflettere e prendere decisioni che non potranno essere rinviate a tempi migliori.
Ho trovato in tal senso molto significativo un contributo presente nel recente saggio di Alberto Alberti1, uno dei grandi maestri della pedagogia moderna al quale continuiamo ad esprimere la nostra gratitudine per l’impegno generoso profuso per molti anni verso la Cgil scuola, in tante occasioni di dibattito e ricerca.
Di recente Alberto, dopo un’incursione commovente e in taluni tratti struggente nel territorio della narrativa2, è tornato a offrici una serie di pensieri di grande attualità su questa fase così complessa della nostra società, sollecitando tutti a riflettere come e quanto i grandi mutamenti della società, del modo di pensare, di vivere delle persone, abbiano condizionato o possano condizionare, in positivo o in negativo, anche la politica scolastica.
Scrive a un certo punto Alberto: “Tutti coloro che si occupano di scuola ricordano le battaglie degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso contro la selezione di classe. Molti vi hanno preso parte personalmente, molti ne sono stati testimoni, tutti hanno saputo o almeno sentito parlare di quel bruciante libretto che resta ancora oggi Lettera a una professoressa e dell’esperienza di Don Milani a Barbiana”3.
In effetti ricordo molto bene che anche nel più recente documento politico/ministeriale sul tema della dispersione (gennaio 2018, titolare all’Istruzione la ministra Valeria Fedeli), il responsabile di quel documento, Marco Rossi Doria, cita testualmente la battaglia contro la selezione di classe e il ruolo di Don Milani. Non solo, quel documento contiene una parte di lettura storica molto significativa e dettagliata in cui si illustrano analiticamente i risultati che la scuola pubblica tra mille difficoltà ha registrato sul terreno della istruzione ed educazione delle nuove generazioni. Non so se il merito di quella impostazione sia da attribuire maggiormente alla ministra del tempo Valeria Fedeli o a Marco Rossi Doria; fatto sta che nella lettera/documento della Commissione designata dal ministro Bianchi, in cui Marco Rossi Doria non ha certamente un ruolo secondario, quei riferimenti storici sono scomparsi.
Se un documento ci parla per le cose che scrive, ci parla anche con i silenzi che include. Tornando alla lettera della “Commissione Bianchi”, penso al silenzio sul ruolo che la scuola pubblica in oltre 70 anni ha avuto per innalzare il livello culturale di milioni di persone, per riuscire a far entrare e permanere (almeno nella scuola elementare e media) anche quella massa che si voleva esclusa dall’opportunità di apprendere. Penso all’ostinazione nel credere che cambiare fosse possibile nonostante tante difficoltà, sperimentando metodi e contenuti di insegnamento, modalità, tempi e ritmi per l’apprendimento, riorganizzando tempo, scuola, strutture, tecnologie didattiche. Aprendo la scuola ai saperi della società, del mondo del lavoro; alimentando interesse e partecipazione intorno alla scuola. La storia soprattutto della scuola elementare e dell’infanzia (meno certo e ancora con un bel po’ di problemi da risolvere quella della scuola secondaria, in particolare di secondo grado) ci racconta un cambiamento possibile senza per nulla sminuire la gravità di abbandoni e ripetenze.
Il silenzio su tutti questi aspetti pesa come un macigno nella lettera citata e concorre a concretizzare la “questione delle questioni”: il cuore del problema non è più il cambiamento della scuola ma il vincolo a dare risorse ai soggetti esterni attraverso la stipula di patti formativi territoriali per realizzare iniziative “verso” la scuola. Prima l’alleanza e le risorse, poi il che fare e come fare.
Per una valutazione compiuta, ci riserviamo ovviamente di leggere le 36 pagine del documento della Commissione non ancora rese pubbliche. Ma già dalla lettera pubblica, di preoccupazione e denuncia dell’operato del ministro, si coglie una differenza abissale con il documento del 2018.
È come se avesse trovato immediata presa anche in questa Commissione un processo che Alberto spiega molto bene: “… si venne elaborando e prese il sopravvento un concetto … cioè che il deficit di formazione fosse legato non a manchevolezze della scuola ma allo scarso sviluppo economico e civile di una certa area geografica. Venne fuori la definizione di “dispersione scolastica”, una variante semantica che, come la neolingua orwelliana, cambia profondamente il giudizio su un fenomeno e la prospettiva del suo trattamento. Gli interventi comunitari garantiscono aiuto alle scuole ma in maniera esclusivamente aggiuntiva. Ogni istituto che lamenta bocciature o abbandoni, non riesamina il suo modo di funzionare e di intervenire per colmare i deficit didattici, ma chiede finanziamenti … Il problema da interno si sposta all’esterno. Non si mette in causa la scuola che boccia e allontana. Si mette sotto accusa il territorio sbagliato …. la scuola è quella e rimane tale, non può adeguarsi alle esigenze degli allievi. Sono sbagliati gli allievi”4.
Questo devono pensare, mi viene da credere, anche quegli incolti e reazionari della destra nostrana che insistono a che un milione di allievi, nati in Italia e frequentanti le nostre scuole, siano privati, senza lo ius scholae, di quel diritto alla cittadinanza italiana che sarebbe l’unico modo per riaffermare la civiltà di questo Paese in cui “La scuola è aperta a tutti” (art. 34) ed “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…” (art. 3). Niente da fare, per questi campioni dell’identità italica, le leggi sono giuste, “sono sbagliati” quel milione di giovani.
Perché questo smarrimento nell’affrontare il tema della dispersione?
Certamente giocano un ruolo le dinamiche indotte dal massiccio movimento di risorse finanziare che si muovono sullo scenario (un miliardo e mezzo di euro come fondi PNRR sulla dispersione e poi altre ingenti risorse su altri capitoli di intervento PNRR e ancora tanti altri fondi che si muovono con i Pon e i fondi Fse). Questo flusso finanziario ha sollecitato nel tempo lo sviluppo di enti e associazioni che si sono specializzate nella caccia ai fondi, dotandosi di competenti ed esperti per realizzare le attività nei diversi contesti territoriali e formativi. Molto spesso, in questi enti giocano un ruolo importante fondazioni bancarie e gruppi finanziari; insomma il neoliberismo ha scoperto l’utilità di interessarsi anche di scuola e formazione. È il nuovo “mecenatismo” del mercato. Già negli anni ‘70 Pierre Bourdieu ci metteva in guardia prevedendo che l’economia di mercato avrebbe trovato il modo di nascondere i valori freddi dell’economia capitalistica, trasformando gli stessi in calde relazioni sociali. Non voglio con ciò affermare che questo sia l’assetto esclusivo della nostra società, ma il processo è in atto.
Resta ed è vivo fortunatamente nel nostro Paese anche un tessuto sano di associazionismo e volontariato sul territorio che preme, senza fini di lucro, per ricostruire uno stato sociale promozionale, attento ai diritti e alle responsabilità, alla tutela dell’ambiente e a un modello di futuro sostenibile. Un pezzo di società civile che manifesta nuove domande, sollecita cambiamenti, vuole contribuire alla ricostruzione di un territorio in cui al centro vi sia la qualità delle relazioni umane e il diritto alla formazione permanente; un pezzo di società civile nemico di quello stato assistenziale che può vivere solo se chi è in difficoltà è trattato come una vittima (del destino, della famiglia, del territorio) cui si concede la pretesa al risarcimento purché resti vittima. Nascono da qui i professionisti del dolore e dell’aiuto, pronti a curare la malattia, a elargire misure compensatorie e facilitatrici di una vita ingrata. In un circuito perverso in cui la vittima resta vittima e l’assistenzialismo una deriva pericolosa e costosa per il futuro del welfare. Una tendenza storica nella crisi del welfare italiano che ora rischia di riproporsi, incrociandosi con la versione moderna del privato che cerca affari nel pubblico e nei buchi sempre più ampi di uno stato sociale in ritirata.
Ecco perché di questa complessa vicenda della dispersione, di una cosa siamo certi: è la scuola che deve cambiare, dal di dentro, con la forza delle sue idee, della responsabilità primaria che solo chi lavora in quella scuola deve assumere, conoscendo e vivendo la relazione educativa con i propri allievi. Un’occasione straordinaria per fare del lavoro di chi opera nella scuola la leva primaria del cambiamento nel modo di organizzare mezzi, strumenti, tempi, persone, modalità di apprendimento; su questo progetto ricercando, valorizzando e coinvolgendo, se vi sono, tutte le risorse attive del territorio a partire dai Comuni.
Questa è “la questione delle questioni” ed è dura perché impegna tutti noi in prima persona a sostenere le scuole con idee, proposte, supporto formativo, solidarietà e impegno per conquistare mezzi e strumenti per realizzare quella scuola capace di non lasciare indietro nessuno. Come chiede la nostra Costituzione e i valori ai quali ci ispiriamo.
Dario Missaglia
5 luglio 2022
Note
1 Alberto Alberti, Quale scuola nel futuro?, Roma, Edizioni Anicia, 2021
2 Alberto Alberti, Ludovico e le sue storie, Roma, Edizioni Anicia, 2020
3 Alberto Alberti, Quale scuola nel futuro?, cit., p. 26
4 Ivi, pp. 27, 28