di Massimo Baldacci
Nello stabilire che “La scuola è aperta a tutti”, il primo comma dell’art. 34 della Costituzione fonda un diritto all’istruzione di carattere universale. Aperta a tutti significa senza alcuna condizione o requisito: né la cittadinanza, né altro. Il senso di questa inclusività completa emerge compiutamente dalla lettura combinata con l’art. 2, secondo il quale la Repubblica “garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (e il diritto all’educazione e all’istruzione è riconosciuto a livello internazionale come uno di questi diritti), e “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà” (verso coloro che a qualsiasi titolo risultano in condizioni di fragilità); e il secondo comma dell’art. 3, che fissa un principio di uguaglianza sostanziale, attribuendo alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. In rapporto a ciò, la scuola è un “organo costituzionale”, come ha detto Calamandrei in una celebre conferenza del 1950; è lo strumento con cui promuovere fattivamente il pieno sviluppo della persona. E tale sviluppo si configura come un diritto di tutti. In coerenza con questo, l’art. 34 stabilisce un principio di inclusione universale.
Tale principio va interpretato non in senso meramente formale (come semplice possibilità di frequentare la scuola), bensì sostanziale: come impegno a rendere tutti pienamente partecipi del processo di istruzione, e a dare a tutti un’istruzione adeguata, promuovendo lo sviluppo della personalità di ognuno. Questa la promessa d’inclusione universale impressa nella Costituzione.
Tale promessa, come è noto, è stata a lungo disattesa, e la sua realizzazione ha richiesto anni di battaglie politico-culturali, che hanno portato a risultati importanti: dalla legge 517/77 fino alla Legge Quadro 104/1992, e altro. E si tratta di una promessa ancora non compiutamente mantenuta.
Il 2024 si è aperto con preoccupanti segnali di regresso rispetto ai risultati democratici conseguiti in tanti anni sul fronte dell’inclusione. Prima l’articolo di Galli della Loggia pubblicato il 13 gennaio sul Corriere della Sera col titolo “Il Mito dell’inclusione nella scuola italiana”, già commentato su questo sito da Bocci e Iosa, che polemizzava sulla presenza nelle nostre aule di ragazzi disabili anche gravi e di ragazzi stranieri non ancora padroni della lingua italiana. Poi, sulle pagine di Libero del 29 febbraio, l’annuncio da parte del ministro Valditara circa la possibile istituzione di “classi di transizione” destinate ad alunni immigrati che, in base a una verifica all’atto dell’iscrizione, non abbiano una buona padronanza della lingua italiana. Pare di capire che questa misura sarebbe limitata alle ore di italiano e matematica, e il ministro la presenta come finalizzata al bene di questi ragazzi e volta a realizzare una “vera integrazione”, perché quella attuale sarebbe “una apparente inclusione”. Come ha fatto notare Luciana Cimino sul Manifesto del 1° marzo, le “classi di transizione” ricordano però le “classi differenziali”, che – come si ricorderà – erano anch’esse presentate come una misura a vantaggio degli alunni a cui erano destinate, ma all’atto pratico si sono dimostrate un dispositivo di discriminazione e di irrigidimento delle diseguaglianze culturali. Se si mettono insieme l’annuncio delle “classi di transizione” e la delegittimazione dell’inclusione pronunciata da Galli della Loggia, sorgono inevitabili preoccupazioni.
In linea generale, le delegittimazioni dell’inclusione degli alunni disabili o stranieri nelle ordinarie classi scolastiche tendono ad avanzare una doppia argomentazione: non giova a tali alunni, che avrebbero bisogno di altro (come le classi di transizione); danneggia gli altri alunni, il cui apprendimento viene rallentato dalla presenza dei primi.
Circa il primo argomento, si può osservare che non vi sono evidenze che classi separate o speciali costituiscano un ambiente di sviluppo migliore delle classi ordinarie per i ragazzi disabili o stranieri; anzi, come si diceva sopra, l’esperienza mostra il contrario.
In merito al secondo argomento, la risposta si può articolare su due piani. In primo luogo, la presenza di alunni diversi rappresenta un’educazione civica vissuta rispetto ai valori costituzionali della pari dignità di tutte le persone, del rispetto dei loro diritti inviolabili, dei doveri di solidarietà ecc. Propagandare astrattamente tali principi nell’ambito dell’educazione civica, per poi contraddirli fattivamente nella concreta vita scolastica sarebbe un viatico verso l’ipocrisia, non verso la maturità etico-civile. In secondo luogo, che gli alunni disabili o stranieri siano un ostacolo al processo di apprendimento degli altri alunni è un pregiudizio radicato in una concezione dell’insegnamento d’ispirazione elitaria. Andrea Canevaro, che fu mio professore, ha speso una buona parte dei suoi scritti per dimostrare che la presenza di tali alunni può essere un’opportunità per arricchire l’apprendimento di tutti gli alunni, e ha indicato le modalità d’insegnamento capaci di realizzare tale opportunità. Per ragioni di spazio, rinvio alle sue opere.
Certamente, l’inclusione non si realizza automaticamente, inserendo semplicemente l’alunno disabile o straniero nella classe. Un’autentica inclusione richiede sia condizioni culturali che condizioni materiali. Le une e le altre, prese isolatamente, sono necessarie ma non sufficienti. Soltanto la loro combinazione può rendere possibile una vera inclusione.
Le prime riguardano la cultura dell’inclusione, che si deve esprimere sia nell’etica pubblica dell’istituzione scolastica (nella legittimazione e nella valorizzazione del compito inclusivo), sia nella formazione di tutti i docenti: nella loro consapevolezza etico-politica e deontologica della problematica dell’inclusione, e nelle loro competenze pedagogiche e didattiche circa le strategie per realizzarla concretamente.
Le seconde sono inerenti alle condizioni pratiche dell’inclusione, quali la disponibilità di insegnanti o figure pedagogiche aggiuntive adeguatamente preparate (docenti di sostegno, mediatori linguistici e/o culturali ecc.), e di sussidi e materiali didattici ordinari e speciali. Questo secondo tipo di condizioni non deve essere trascurato. Come ha scritto Fulvio Papi nel suo noto saggio materialistico sull’Educazione, l’educazione accade come può, nei limiti delle condizioni pratiche entro cui si svolge.
Qualsiasi tentativo di promuovere l’inclusione basandosi soltanto sul lato culturale o su quello materiale sarebbe unilaterale e destinato ad esiti parziali e inadeguati. La loro combinazione è necessaria. E lo ricordo prima di tutti a me stesso, che – come pedagogista – ho la tendenza a considerare fondamentale il lato culturale.
Questa tensione sistemica tra le condizioni dell’inclusione, significa anche che ad essere inclusivo è l’intero ambiente educativo, il modo di combinarsi dei suoi fattori. Per questo è appropriato parlare non solo di scuola inclusiva, ma anche di classe inclusiva (e tutte le classi dovrebbero essere tali). Insomma, l’inclusione è un compito dell’intera comunità scolastica e di tutti gli insegnanti, non può essere confinata in classi differenziali o delegata a figure specialistiche.
Muovendo da ciò, ritengo che la cultura dell’inclusione debba essere patrimonio comune di tutti i docenti, e che quindi tutti loro debbano ricevere una formazione pedagogica e didattica sulle strategie di inclusione, in quanto tutti devono operare per la sua realizzazione.
Ricordando il monito circa le condizioni materiali per realizzare concretamente l’inclusione, credo però che quanto detto sopra non debba comportare la rinuncia a figure aggiuntive quali gli insegnanti di sostegno (o i mediatori linguistico-culturali). Tale rinuncia potrebbe portare a un peggioramento di fatto delle condizioni pratiche dell’inclusione, un peggioramento a cui – lasciato da solo – l’insegnante curricolare potrebbe difficilmente rimediare, anche se fosse maggiormente sensibile e preparato rispetto all’inclusione. L’educazione accade come può, non come deve.
Si tratta piuttosto di ricalibrare la funzione dell’insegnante di sostegno, che negli anni ha subito una metamorfosi strisciante verso la delega ad occuparsi in forma quasi esclusiva degli alunni disabili, con la conseguente tendenza alla deresponsabilizzazione degli altri docenti. Si tratta di riaffermare il carattere di docente aggiunto sulla classe dell’insegnante di sostegno, il quale – pur avendo una preparazione pedagogica specifica sulle disabilità (pedagogica non medica, se non per quanto strettamente necessario) – va concepito come sostegno all’intera classe, favorendone un lavoro caratterizzato da una maggiore flessibilità e articolazione (lavoro per gruppi, attività di laboratorio, esperienze espressive di atelier ecc.). Un siffatto lavoro di team e in compresenza tra l’insegnante curricolare e quello di sostegno potrebbe così moltiplicare le opportunità d’integrazione e d’apprendimento di tutti gli alunni.
Questa però è solo un’ipotesi pratica (che non aspira all’originalità ma alla saggezza). La questione prioritaria che ci deve vedere uniti è la condivisione del principio dell’inclusione e del suo valore etico e civile.
Nel pubblicare questo articolo, si precisa che l'ipotesi propositiva ivi formulata non costituisce la posizione di Proteo sulla fondamentale questione dell'inclusione scolastica, ma rappresenta un contributo personale dell’autore al dibattito.
La presidenza
Una versione parzialmente diversa di questo scritto è in pubblicazione come Editoriale della rivista Pedagogia più Didattica, n.1, 2024.