Lettera di Raffaele Iosa sull'idea del cantiere scuola e risposta di Dario Missaglia, presidente di Proteo.
Caro Dario,
la parola “cantiere” mi piace. E mi piace che la dica tu, amico di lunga data e presidente di Proteo.
Ed è giusto così: quando fondammo Proteo negli anni '80 e io ebbi l’onere di esserne il primo presidente, era in fondo questa l’ispirazione. Un cantiere utile per il futuro della scuola al servizio della scuola e del sindacato. Oggi, entrambi pensionati, mi sembra quasi di passare il testimone di un desiderio rimasto eguale. Non a caso aggiunsi a Proteo il motto “fare sapere”, per marcare il territorio della ricerca, dell’impegno attivo sui grandi nodi educativi della contemporaneità. Forse più libero nei tempi e modi dal ritmo cacofonico della politica.
Abbiamo avuto insieme, nelle tante cose condivise la passione delle tre “P”: pane, pedagogia, politica. Il pane simbolico degli essenziali della vita e delle migliaia di panini mangiati al volo in qualche stazione d’Italia a parlare di scuola, sindacato e politica. La pedagogia perché è la base culturale, deontologica, esistenziale della nostra vita professionale: essere stati maestri e non riuscire a dimenticarlo. E politica, perché è la politica che trasforma o distrugge il mondo. Ecco perché cantiere mi piace, perché pensa costruttivo.
Ti ho detto quindi sì subito, a darti una mano, non solo organizzare corsi per concorsi, ma di provare, ancora una volta a pensare, studiare, approfondire, ascoltare e offrire idee.
Non sono quindi stato sorpreso quando hai lanciato l’idea di essere vicini alle scuole e costruire un cantiere pedagogico in questa terribile fase del coronavirus. Un cantiere che mette insieme ascolto, idee e scambi sulla transitoria epoca della DaD, ma soprattutto su come e cosa si dovrà non disperdere, quando si tornerà a scuola, di quel buono e di rottura creata sul campo.
Forse non è vero che tutto cambierà, ma certo è successo qualcosa che può dare forza a una didattica e a una scuola diversa dal passato almeno in molti luoghi educativi. Per un ritorno che non sia solo questione di aule e mascherine, ma di un nuovo spirito pedagogico.
È accaduto infatti per me un evento inatteso. A gennaio nessuno di noi lo avrebbe previsto: insegnanti, presidi, alunni e studenti, genitori hanno sentito dolorosamente l’assenza della scuola.
Quella scuola denigrata nei quotidiani, di cui si spettegola stile Mastrocola, quella scuola è stata travolta da un grumo di nostalgia perché finalmente sentita come comunità educativa necessaria. Ci siamo vicendevolmente mancati, noi gente di scuola e loro, i nostri ragazzi. E da qui ho visto il nascere dal basso (ripeto: dal basso) di una “passione generosa” inattesa che ha spinto migliaia di docenti a trafficare con quelle macchine grasse che sono i computer et similia non perché innamorati di Bill Gate e delle piattaforme, ma perché l’unico modo materiale di ricostruire una qualche relazione. Di ri-vedersi. Ea volte perfino di esagerare. Ma è appunto la scoperta della relazione educativa come empatia la novità del presente. Se non ci fossero stati i computer alcune maestre avrebbero utilizzato i piccioni viaggiatori. Per questo trovo infondati i timori sia di chi pensa che questa fase è una specie di esperimento per una scuola frigida digitale, sia quella di dover “salvare” la didattica in presenza come l’unica buona sempre. Mettere al centro la didattica in presenza è una banalità ovvia, la presenza fisica tornerà a farci sentire i nostri reciproci odori, ma che non sempre sanno di lavanda. Ammettiamo che molta didattica “normale” era prima del coronavirus frigida, verticale, dannosa, selettiva. La nostalgia dei corpi non può dimenticare la bruttezza di didattiche tradizionali inguardabili. Forse la scuola dopo il confinamento nelle case sarà più saggia e mescolerà manovalenza e digitovalenza, pensiero analogico e digitale senza estremismi. Però vicini ai ragazzi, fisicamente, ma soprattutto empaticamente.
Ma c’è di più: trafficando per prove ed errori, la passione generosa per ricreare un legame empatico con i nostri ragazzi ha messo in crisi la didattica tradizionale d’aula, la valutazione, tante ataviche abitudini e riti che sembravano eterni. Certo ci sono stati ancora prof. bisonti che hanno scimmiottato l’aula col video con patetiche lezioni e interrogazioni. Certo ci sono stati anche questi bisonti, ma per la gran parte degli insegnanti si è messa in crisi la propria didattica quotidiana prima ancora che quella a distanza. Insomma, nella gran parte è scoppiata una ricerca didattica per una più viva relazione educativa anima del far scuola. Se ti pare poco! Da qui ore e ore di lavoro, molto più di prima, di confronti coi colleghi, di ricerche ansiose di qualcosa di sensato. Sono scoppiati webinar di tutti i tipi per capirci qualcosa. E tutto spontaneo, quasi nessuno si è preoccupato se era previsto nel contratto, e quasi nessuno ha letto le note del Ministero. Certo ci sono stati errori, presidi sergenti, lavativi. Come sempre. Ma le passioni generose sono state un fatto collettivo e non di una minoranza. Migliaia di insegnanti hanno auto-appreso in situazione, carichi di buona volontà. Ma questo ha fatto riscoprire a molti alcuni fondamentali della pedagogia. Io ho fatto un webinar con 4.600 persone ad ascoltare… la “valutazione formativa”.
Raccontare a migliaia di insegnanti la zona prossimale di sviluppo di Vigotsky ti fa venire un brivido antico, anche politico. Pensa un po’: non il misurare di moda, né test o scale, ma la valutazione formativa come incontro onesto tra il sé che insegna e il sé che apprende, per vedere dove si è sbagliato e dove si è fatto bene. È anche esplosa una dilagante e spontaneistica didattica attiva. John Dewey risorto in Italia per sopperire alla noia che certe lezioni digitali provocavano.
È dunque dalla necessità che molti insegnanti hanno scoperto lo spirito della ricerca, una scuola dove ai ragazzi viene chiesto di fare domande e non di dare risposte, di imparare insieme. È per questo che ho coniato una terminologia che ha avuto un certo successo. Non DaD, ma didattica della vicinanza. Sì, vicinanza appunto perché nonostante la frigidità del digitale quello volevano fare: essere vicini nonostante la distanza.
Resterà qualcosa di questa strana esperienza? Non ho più l’illusione giovanile di essere vicino a una prossima rivoluzione pedagogica, ma sta a noi fare in modo di ottimizzare la parte migliore della didattica della vicinanza prodotta, entrare con coraggio nelle fratture mentali e organizzative tra colleghi, che si sono finalmente create tra diverse didattiche dei diversi insegnanti, smettendola di considerarle equivalenti nell’indifferenza, agnostica.
Era quindi da te, per quello che ti conosco, pensare che non si poteva tacere, né rassegnarsi né attendere le decisioni della politica, né di fermarsi alle forme giuridiche e amministrative, né attendere che tutto torni come prima, ma agire sul futuro, non aspettarlo. Non sarà con un comma di una legge che si tornerà a scuola, ma con la presa di coscienza che questi mesi hanno rappresentato una rottura col passato e l’emergere di contraddizioni da anni incancrenite.
È esplosa la contraddizione del voto, è esplosa la contraddizione della separazione tra discipline, mai come adesso l’aridità della didattica direttiva. Infine, sentiamo come mai prima con dolore il rischio di perdere i ragazzini con disabilità e i poveri. Sentiamo che la scuola è nel e del territorio sociale in cui opera e non del Ministero. Insomma è in corso un ripensamento che aprirà anche conflitti tra gli insegnanti, divisioni culturali e professionali. E finalmente, ci vien da dire, visto che le vestali della classe media sono vegete, i Galli della Loggia proliferano, il gentilismo sibila tra i banchi. Quella scuola-bottega che descrive don Milani e che è sempre stato il nostro cruccio.
E già che ci sono un pezzetto di cantiere te lo offro subito, come mio contributo concreto.
Non mi rassegno a questa litania che per le scuole è troppo presto riaprire. Gli studi in corso in vari Paesi, nonostante il clima da paura creato nei media in Italia, ci segnalano che la chiusura delle scuole non ha una significativa incidenza sull’aumento del contagio, e riguarda non solo i bambini, ma anche gli operatori. Vedi il recente studio di "Lancet" di questi giorni che ti ho mandato. Non mi rassegno alla scomparsa dell’infanzia nel dibattito pubblico, lasciata senza un’idea nel chiuso delle case, cui si dice solamente “aspettate settembre”! Col paradosso di far tornare al lavoro i genitori e lasciare i loro figli nel vuoto. Parlo qui, delle età che hanno riempito la mia vita professionale: i bambini da 1 fino ai 14, l’area meno autonoma per questioni naturale e sociale. Bambini che sono rimasti per tempo solo figli, e che la DaD non ha fatto ri-tornare bambini, perché è tra bambini che si cresce. Per questo sto lavorando per una possibile loro “liberazione”: fuori di casa presto!
Pre-condizione di qualsiasi attività sono standard essenziali di garanzie per tutti gli operatori, ovviamente, ma suggerisco l’“accomodamento ragionevole” proposto dall’ONU nel documento sui diritti sulle persone con disabilità: fare tutto il possibile nelle condizioni date, puntando a realizzare il massimo di autonomia possibile nei bambini.
Ecco la proposta: le “scuole del sole”. Immaginiamo (anzi speriamo) che da fine giugno a fine agosto vi siano “finestre” di uscita da casa, pur con tutte le cautele. È un periodo climaticamente favorevole e il peggiore per stare chiusi in casa. Si potrebbero promuovere e finanziare progetti integrati territoriali tra scuole ed enti locali modificando i classici CRE estivi, offrendo ai bambini dall’asilo nido alla scuola media, in diverse forme per l’età, esperienze di vita sociale in comune, più all’aperto che al chiuso delle scuole. Si potrebbero usare le scuole come spazi sgombra roba, bagni e mense, ma il resto fuori sotto gli alberi ove possibile. Ma si possono usare anche spazi attrezzati esterni, giardini, stabilimenti balneari, ecc. Servirà soprattutto una progettazione e realizzazione orizzontale del territorio, mescolando insieme le risorse dell’ente locale, della scuola, dell’associazionismo. Insomma, quel sistema formativo integrato del lontano, ma mai dimenticato Bruno Ciari, per evitare che l’estate alimenti ancora di più le disparità di opportunità tra bambini, aumentate dalla fine dell’inverno a oggi.
Le ho chiamate “scuole del sole” (tanto per dargli un nome ottimista), luoghi educativi integrati dove si mescolino i nostri insegnanti, gli educatori che per tradizione lavorano ai CRE, gli animatori sociali, sportivi, il terzo settore, le associazioni. Per gli insegnanti sarà il ritorno della relazione educativa e didattica, non certo per fare ripetizioni, ma per costruire nella e per la città spazi di nuova comunità educativa. Ci aiuta il Regolamento Autonomia 275/99, se si vuole l’appiglio di legge, art. 3 del PTOF e art. 9 di ampliamenti dell’offerta formativa in rete. Ricordo che la scuola dell’autonomia è prima di tutto scuole nel e per il territorio, poi arriva, molto dopo, il Ministero.
Comprendo l’effetto di una simile proposta, tocca agli enti locali, alle scuole e ai sindacati come dirimere l’incrocio tra diritti dei bambini, organizzazione del lavoro, contratti, e via dicendo. Ma l’emergenza richiede di andare oltre le abitudini, dura solo questa estate torrida di emozioni.
Non mi sembrerebbe scandaloso pagare di più gli insegnanti, lasciare a forme di volontariato l’adesione. Altrettanto vale per gli educatori che sono già nelle nostre scuole per seguire gli alunni con disabilità e che d’estate appunto sbarcano il lunario gestendo e promuovendo molti CRE estivi.
Le "scuole del sole" servirebbero anche ai genitori, oppressi da un periodo difficile, libererebbe i loro figli dal chiuso della casa, renderebbe possibile fare almeno due mesi più sereni. Sarà anche difficile per molti genitori programmare ferie fuori di casa, non mi pare che sia un periodo ricco.
Che almeno i figli siano più curati per il tempo di vita. E da figli farli tornare bambini tra bambini.
Partirei a promuovere le "scuole del sole" ovviamente prima di tutto dai bambini con disabilità, quelli che hanno di più pagato l’isolamento di questi mesi di distanza. E i ragazzi che meno hanno usato il computer, quelli con famiglie in difficoltà economica. I diritti sono cosa seria.
Servirà un Decreto per dare cornice giuridica ed economica a questa idea? Si faccia. Serviranno forme contrattuali speciali e straordinarie? Certo, e chi potrebbe tirarsi indietro?
Verso i bambini abbiamo in questa epoca troppi debiti. Fantasia, senso civico, valore dei diritti e della democrazia, passione pedagogica civica, per fare in quest’epoca straordinaria cose necessariamente straordinarie. Ed è ora, come ci ha insegnato il nostro reciprocamente amato John Belushi che “quando i tempi sono duri, tornino i duri a ballare”.
Raffaele Iosa
Caro Raffaele,
i percorsi della vita che incrociano la politica sono talvolta misteriosi, carsici.
I segni restano in profondità perché ci sono relazioni che sono andate oltre gli impegni, i vincoli di organizzazione, la militanza “ufficiale”; sono relazioni profonde che attendono solo un’altra occasione. Ed ecco che dal fondo carsico, la corrente riemerge e riannoda i luoghi di un paesaggio che si era frammentato. Miracoli della politica, quella, caro Raf, che ci è sempre piaciuta e ci ha coinvolto oltre venti anni fa. Ora questa politica è segnata dal covid19 e, senza che potessimo prevederlo, ha aperto nella scuola una stagione nuova, densa di conflitti, sfide, aperture. Io poi, forse perché troppo scosso da tanta drammaticità e dolore, sono convinto che dobbiamo lavorare per aprire davvero una nuova fase non solo nella scuola, ma anche nel lavoro, nell’economia, nelle più ampie relazioni sociali e istituzionali.
So benissimo, e tutti possono leggerle, le “passioni generose” che tu cerchi perchè innanzitutto le vivi, in prima persona e con entusiasmo contagioso. Le battaglie che abbiamo di fronte hanno bisogno anche del tuo prezioso contributo; sono felice di questo evento. Bentornato Raffaele.
Dario Missaglia