Alla fine degli anni novanta del secolo scorso, seppure in maniera disomogenea, si percepiva come matura, nelle scuole dell’infanzia e del ciclo primario, una stagione di ricerche e innovazioni metodologico-didattiche mirate a rendere centrale nel processo di apprendimento il ruolo da protagonista del bambino (meglio dei bambini, in quanto l’apprendimento ha sempre una dimensione sociale). In tale contesto la rigidità delle normative che regolavano le modalità di organizzazione dell’attività scolastica, la complessità dell’iter per attivare sperimentazioni, rendevano impellente una azione di decentramento verso le scuole di aspetti legati al modo di realizzare la mission scolastica, il più possibile in aderenza alle potenzialità e alle specificità del contesto in cui le scuole stesse agivano la loro azione educativa e didattica.
Prendeva forza l’idea che una scuola, la quale mettesse al centro i bambini e i loro processi di apprendimento cognitivi e affettivo-relazionali, avesse necessità di percorsi curricolari più coerenti nel loro sviluppo temporale, che tali processi dovessero tenere conto e prendere forza dalle specificità del contesto in cui si realizzavano (senza scadere nel localismo), attraverso un reale rapporto di interazione tra la scuola e il proprio territorio e le espressioni più significative dello stesso.
Dal punto di vista legislativo, si sono concretizzate norme che nello spirito e nella lettera andavano e vanno in tale direzione, di cui di seguito cito solo i principali come richiamo, essendo ben presenti a tutti coloro che si occupano di scuola e in particolare di quella parte che per un tempo era stata definita come “scuola di base”.
Vale la pena ricordare infine la progressiva diffusione degli istituti comprensivi, che riuniscono scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado, i quali sono andati aumentando di numero tanto da costituire, per alcune Regioni, l’unico assetto della scuola di base.
A fronte di un quadro normativo delineatosi come sopra ricordato, sarebbe stato legittimo aspettarsi un forte implemento della coerenza del sistema 3/14 anni (ora 0/14), un rapporto organico tra scuola e territorio, una capacità di elaborazione e di innovazione da parte delle ISA che attuasse i dettati delle norme nazionali, proprio attraverso la valorizzazione della loro autonomia.
La percezione diffusa è che tutto ciò non sia accaduto in modo sufficientemente significativo e generalizzato.
Sarebbe utile trasformare tale affermazione in una domanda di ricerca, anche utilizzando i dati e gli elementi conoscitivi già a disposizione, affinché possa essere avvalorata o smentita in modo non impressionistico.
Assumendo provvisoriamente come vera tale sensazione, in attesa degli esiti della possibile suddetta ricerca, c’è da chiedersi come mai quanto sopra possa essere accaduto e/o stia ancora accadendo.
Si può ipotizzare che un ruolo primario l’abbia giocato la turbolenza politica vissuta da anni dal nostro Paese, per cui l’interesse non altissimo per la scuola si è accompagnato alla tentazione di farne terreno di scontro, con continui interventi normativi pensati più per affossare quanto fatto da altri governi piuttosto che a costruire nel tempo una direzione sufficientemente di senso, in un settore in cui per essere efficaci i cambiamenti hanno bisogno di confronto e di tempi lunghi.
Una seconda questione centrale potrebbe essere rappresentata dal fatto che le innovazioni normative, anche quando sono andate nella direzione di una applicazione di quelli che sono i principi base delle Indicazioni Nazionali citate, pare non abbiano saputo o potuto mettere in discussione elementi strutturali che rendono, se non proprio impossibile, quantomeno molto problematico attuare ciò che in esse è affermato. Ci sarebbe da verificare quanto abbia pesato la scarsa coerenza ancora esistente tra scuola primaria e secondaria di primo grado, anche quando poste sotto lo stesso tetto dell’istituto comprensivo, che difficilmente potrà essere risolta senza adeguati interventi normativi. La stessa definizione di “Scuola secondaria di primo grado” e non “Scuola primaria di secondo grado” è un sintomo di tale difficoltà. Abbandonando pure a malincuore l’idea di una riforma strutturale del segmento 6/14 anni, andrebbero come minimo definite le condizioni per cui la collegialità e la coerenza del curricolo richieste nei documenti si possano attuare in maniera almeno sufficiente.
Non sfugge come le attività funzionali all’insegnamento, in cui attuare la prevista collegialità, nella secondaria di primo grado siano di fatto inesistenti o comunque assorbite dagli adempimenti burocratici.
La formazione nei documenti ministeriali è giustamente indicata come questione centrale, quale supporto e linfa dell’innovazione e ad essa intimamente collegata. Al di là di tali importanti affermazioni e di quanto stabilito dalla Legge 107/2015, la formazione continua del personale non ha trovato sino ad ora una chiara definizione contrattuale, laddove è indispensabile che tali attività, o almeno una buona parte delle stesse, siano realizzate collegialmente (anche per gruppi) e in verticale e che abbiano un respiro pluriennale, per potere accompagnare i processi di miglioramento e dagli stessi trarre nuovi stimoli di sviluppo.
Una questione che meriterebbe particolare attenzione e cura è costituita dal ruolo dei dirigenti scolastici. Si ha la sensazione (anch’essa da verificare) che, nei fatti, il ruolo di tale figura, cuore propulsore dell’autonomia, rischi progressivamente di allontanarsi dallo scopo centrale del sistema scolastico, il processo di apprendimento, per essere assorbito da altre questioni cogenti e pur importanti (vedasi la sicurezza) che però dovrebbero essere un mezzo necessario ma non il fine per le istituzioni scolastiche.
L’idea forte dell’autonomia scolastica è rappresentata dal fatto che il dirigente scolastico, non in modo solitario ma in continuo rapporto con gli organi collegiali, possa fare sintesi tra il percorso curricolare delineato e le risorse disponibili. Qualora risultasse che il dirigente possa avere oggettive difficoltà a coordinare e promuovere costantemente gli aspetti educative e didattici, sarebbe fortemente indebolito il senso stesso dell’autonomia. In aggiunta, vi è da considerare che le scuole solo molto raramente dispongono di risorse professionali destinate a sostenere in maniera costante tale compito.
Certo la drammatica pandemia da Covid 19 ha fortemente peggiorato la situazione in cui le scuole sono chiamate a svolgere il proprio ruolo. Il rischio è che all’emergenza attuale si sacrifichino inevitabilmente il lavoro di gruppo, le attività di continuità, i rapporti con il territorio e che tali questioni restino indebolite, anche quando la situazione attuale andrà normalizzandosi.
D’altra parte, potrebbe anche succedere che il terribile sconvolgimento portato dalla pandemia, il quale ha costretto l’Unione Europea a ripensare il proprio modo stesso di essere ed i valori da presidiare, ponga la scuola nella situazione di riorientare il proprio agire in funzione di un progetto pedagogico che miri alle competenze fondamentali per una società inclusiva, in cui l’io abbia senso solo in funzione di un noi condiviso e solidale, facendo sì che l’indispensabile apparato di norme sia un mezzo e non il fine del proprio agire.
In tal senso, mi pare importare ricordare il “Protocollo pedagogico per il ritorno a scuola” che l’Associazione Professionale Proteo Fare/Sapere ha elaborato e pubblicizzato. Tale documento rappresenta un contributo di riflessione e di proposta, rispetto al quale si è manifestata una persino insperata attenzione ai massimi livelli nazionali e di commissione europea. Tale sensibilità fa sperare che, se dopo la terribile esperienza in atto nulla non sarà più come prima, potremmo forse cominciare a riappropriarci dei principi fondanti di “un nuovo umanesimo” nella scuola e nella società.