Associazione professionale Proteo Fare Sapere
26 marzo 2024

Integrazione, interazione e scuola interculturale

di Gennaro Lopez, Cts Proteo Fare Sapere

Recenti prese di posizione e decisioni del Ministro Valditara sembrano voler mettere in discussione, oltre all’autonomia scolastica, lo stesso principio costituzionale di inclusività che caratterizza il nostro sistema di istruzione. Ne ha scritto opportunamente Eliana Romano, sollecitando la ripresa di un dibattito su questi temi: una sollecitazione che ha ispirato le considerazioni che seguono.

L'educazione interculturale, soprattutto in Italia, è nata sotto la spinta del fenomeno dell'immigrazione. Ed è bene, a questo proposito, far sì che sullo sfondo dei nostri ragionamenti non si perdano mai di vista le ragioni e le dimensioni dei fenomeni migratori nel mondo attuale. Aggiungo che la presenza di minori di origine migratoria nella scuola si innesta su una situazione in forti cambiamenti a livello sociale, culturale, di organizzazione scolastica, caratterizzati da processi di trasformazione nelle competenze territoriali (decentramento, autonomia ecc.), nei linguaggi e nei media della comunicazione, nei saperi e nelle connessioni tra i saperi. A tanta complessità si presume di poter far fronte con decisioni di sconcertante e inefficace semplificazione, assunte per di più con piglio autoritario e repressivo. Proviamo, invece, a ragionare e argomentare.

La presenza di alunni provenienti da famiglie immigrate è un dato strutturale, in progressivo aumento anche nel segmento delle scuole superiori e coinvolge tutto il sistema scolastico. La “polarizzazione” del fenomeno in alcune aree geografiche e in alcune scuole rappresenta di per sé una criticità da tenere sotto osservazione e da affrontare con gli strumenti propri dell’autonomia scolastica: non a caso la recente vicenda di Pioltello riguarda proprio quella Lombardia che registra il maggior numero in assoluto di alunni “stranieri” (o, per meglio dire, “alunni con background migratorio”, giacché l’uso del termine “straniero” implica una caratterizzazione in termini esclusivamente negativi, poiché allude a ciò che le persone così designate non sono [originari del nostro paese] o a ciò che non hanno [la nostra lingua, la nostra cultura]. L’espressione si limita cioè a rilevare il loro “essere esterni”, privo di qualsiasi altro connotato salvo quello della ‘stranezza’).
La scuola italiana ha scelto fin dagli anni ’90 del secolo scorso l’educazione interculturale come dimensione trasversale, come prassi pedagogica per tutte le discipline e tutti gli insegnanti. Va detto che, da questo punto di vista, c’è ancora molta strada da fare sul piano della formazione iniziale e in servizio dei docenti.
L’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia la costruzione ed il rafforzamento di comunità etniche chiuse. Favorisce e promuove l’eterogeneità nella composizione delle classi, piuttosto che la formazione di classi omogenee per provenienza culturale o religiosa. Potremmo dire che queste caratteristiche definiscono una possibile via originale anche nel confronto con altri Paesi europei (si vedano soprattutto i casi della Francia e della Gran Bretagna). Conviene qui chiarire che il concetto di “integrazione”, inappuntabile dal punto di vista dell’inserimento degli immigrati nel nostro contesto socio-economico, deve opportunamente cedere il passo, in contesti educativi e formativi, al concetto di “interazione”.
Si tratta, dunque, di assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della scuola nel segno del pluralismo, cioè come occasione per aprire l’intero sistema a tutte le differenze (di provenienza, genere, livello sociale, storia scolastica). Tale approccio si basa su una concezione dinamica della cultura, che evita sia la chiusura degli alunni/studenti in una prigione culturale, sia gli stereotipi o la folklorizzazione. Le strategie interculturali evitano di separare gli individui in mondi culturali autonomi ed impermeabili, promuovendo invece il confronto, il dialogo ed anche la reciproca trasformazione, per rendere possibile la convivenza ed affrontare i conflitti che ne derivano, unendo alla capacità di conoscere ed apprezzare le differenze la ricerca della coesione sociale, in una nuova visione di cittadinanza, in cui si dia particolare attenzione a costruire la convergenza verso valori civici comuni.  
L’educazione interculturale di cui parlo si rivolge, perciò, trasversalmente, a tutti i saperi e si intreccia con l’educazione ai valori costitutivi della democrazia, quali il diritto alla cittadinanza, il rispetto dei diritti umani, il rispetto della dignità della persona. Essa è particolarmente attuale in quanto si lega naturalmente a concetti come quelli di dialogo, di pace, di convivenza possibile e si contrappone ad altri concetti altrettanto attuali, purtroppo, come quelli di scontro di civiltà, integralismo, guerre etniche, razzismo, xenofobia, omofobia ecc.
La logica concettuale della distinzione tra “noi” e “gli altri” non può più stabilire alcuna esclusione assoluta. La figura di pensiero della distinzione esclusiva – il principio “o … o”- viene sostituita dalla figura di pensiero della distinzione inclusiva – il principio “sia … sia”. La distinzione “noi e gli altri” viene nello stesso tempo cancellata e rinnovata dalla costruzione della doppia appartenenza per tutti: cittadini del mondo (cosmos), ma al tempo stesso cittadini della polis. Tutti sono entrambe le cose, sono uguali e diversi, hanno la loro patria tanto in un luogo particolare quanto nel cosmos intero, vivono, in una parola, nella “cosmopolis”.
Perciò ritengo che l’azione educativa debba puntare ad una relazionalità interculturale in senso lato, orientata cioè a rendere possibile il confronto tra punti di vista differenti, non solo in termini etnoculturali e linguistici, ma anche politici, etici, antropologici, ideologici. Educare alla relazione interculturale richiede un ripensamento delle pratiche educative, che le porti a funzionare in una cornice più ampia di quella attuale: si tratta di passare da pratiche educative più o meno consapevolmente situate in una certa cultura, la “nostra”, a pratiche educative aperte a un mondo culturalmente plurale, in vista della formazione di un “nuovo noi”, di una nuova cittadinanza, sapendo che l'intercultura riguarda sempre, per definizione, “noi e loro”: noi e loro che, insieme, ci misuriamo con le difficoltà e le contraddizioni di un mondo in continuo cambiamento.
La dimensione interculturale, che pone a fondamento il livello relazionale (l'incontro personale, la percezione delle differenze, il rispetto delle altre culture e degli altrui stili di vita, valori, tradizioni ...) è un elemento oggi irrinunciabile dell'educazione alla cittadinanza. Ovviamente, ci riferiamo a un'idea di cittadinanza basata sulla consapevolezza che la nostra visione del mondo non è l'unica (principio di laicità).
Le culture non sono organiche e chiuse (una visione reificata della cultura è propria dei fondamentalismi e dei nazionalismi), ma passano attraverso processi di trasformazione e di adattamento: i concetti di “cultura” e “identità” sono concetti in divenire, non dati una volta per tutte. E qui viene opportuna un’altra precisazione “linguistica”: definiamo come “multiculturale” la nostra società, nel senso che rileviamo la presenza di soggetti portatori di usi, costumi, religioni, modalità di pensiero differenti, ma la strategia di intervento educativo è di tipo interculturale, cerca di mettere in contatto, in interazione, le differenze. Occorre uscire dalla logica italiani/stranieri perché questa logica continua ad ingabbiare i processi formativi entro una falsa pista che distingue tra scuola "normale" e "scuola con alunni non italiani". Questa è la realtà cui ogni scuola è chiamata a rispondere con una progettualità che assuma la dimensione della pluralità e della differenza come dato di partenza e non come elemento straordinario che genera turbative da “ricondurre all´ordine”.
Piuttosto che pensare all’affermazione di improbabili “egemonie culturali”, bisognerebbe operare per la costruzione di una nuova cultura in cui ognuno e tutti (italiani e non) possano sentirsi a casa, in cui ognuno possa nel contempo integrarsi e differenziarsi, sentirsi a casa ma anche veder rispettata la dimensione irriducibile della propria identità ed esperienza di persona. Gli apporti dell’antropologia e della storia saranno allora particolarmente importanti, nel quadro di una visione del mondo sfaccettata e complessa, capace di mettere in questione gli stereotipi.

Naturalmente, in tale contesto l’acquisizione e l’apprendimento della lingua italiana rappresenta una componente essenziale, la condizione di base per capire ed essere capiti, per partecipare e sentirsi parte della comunità, scolastica e non. Perciò occorre investire nella formazione di docenti “specialisti”, ma anche in una glottodidattica che riguardi i docenti di tutte le discipline.  
La situazione di plurilinguismo che si sta sempre più diffondendo nelle scuole rappresenta un’opportunità per tutti gli alunni, oltre che per quelli con background migratorio. In questo senso, andrebbero valorizzate le lingue dei Paesi d’origine, il cui mantenimento a livello individuale è uno strumento fondamentale per la crescita cognitiva.

La presenza di immigrati nella scuola può rendere più evidenti alcuni stereotipi, pregiudizi, forme di etnocentrismo, prodromi di xenofobia o di vero e proprio razzismo, nelle sue varie forme (da quello istituzionale a quello “scientifico”). La scuola deve affrontare questi problemi senza tacerli o sottovalutarli; l'educazione antirazzista può essere considerata uno degli obiettivi all'interno dell'intercultura, anche se non coincide interamente con essa. In questo ambito sono comprese anche tutte le strategie attraverso cui si costruisce l’alterità, che oggi devono mirare in modo specifico a contrastare l’antisemitismo, l’islamofobia, l’antiziganismo.

Storia, geografia, letteratura, matematica, scienze, arte, musica, nuovi linguaggi comunicativi e altri campi del sapere costituiscono un’occasione ineludibile di formazione alla diversità, permettendo di accostarsi non solo a diversi “contenuti”, ma anche a strutture e modi di pensare differenti. A titolo esemplificativo, segnalo la necessità di: 1. superare le proposte marcatamente identitarie e eurocentriche nel campo dell’insegnamento della storia, concettualizzando il nesso storia-cittadinanza; 2. considerare la geografia un’occasione quanto mai privilegiata per la formazione di una coscienza mondialistica; 3. allargare lo sguardo degli alunni in chiave multireligiosa, rendendoli consapevoli del pluralismo religioso che caratterizza le nostre società.

Le migliori iniziative promosse in questi anni dalle istituzioni scolastiche per far fronte alla presenza di alunni con background migratorio tracciano una modalità organizzativa/tipo della scuola accogliente e interculturale. Essa muove dall’assunzione responsabile del concetto di autonomia e dalla piena consapevolezza di dover educare e istruire in una comunità che è cambiata, diventata più complessa, arricchita di storie diverse e di bisogni specifici. Contemporaneamente, l’autonomia scolastica e la diversità delle politiche e degli investimenti locali in materia di integrazione scolastica degli alunni appartenenti a famiglie immigrate hanno evidenziato in questi anni il rischio di una sorta di “localizzazione dei diritti”. In alcune scuole e aree del Paese, il tema è stato assunto in maniera chiara e responsabile e sono stati attivati risorse e dispositivi mirati; in altri casi, invece, i bisogni della popolazione immigrata presente nella scuola sono ancora nell’invisibilità, o sono trattati, caso per caso, con risposte di tipo emergenziale e di scarsa qualità. Questo porta ad una differenziazione dei percorsi/progetti di integrazione e a una evidente discrezionalità delle risposte da scuola a scuola e da città a città. Spetterebbe a chi ha responsabilità di governo portare a sistema e diffondere la conoscenza delle situazioni positive e consolidate, anche al fine di favorire il processo di inclusione dei minori appartenenti a famiglie immigrate nelle città e nelle comunità, orientando scuola e territorio a lavorare in maniera congiunta, possibilmente su progetti coordinati e condivisi.

Per concludere, alla luce di quanto detto fin qui, credo necessaria rinnovata visione della formazione degli insegnanti. Un insegnante “sensibile alle culture” non può non essere un insegnante “riflessivo”, capace di apertura alla diversità e all’interpretazione del bagaglio culturale degli alunni/studenti nei loro aspetti singolari e soggettivi. In tale prospettiva, la formazione interculturale si configura come una prospettiva di innovazione dell’insegnamento complessivamente inteso e, di conseguenza, del ruolo docente. Il contesto della diversità culturale obbliga l’insegnante a uscire dai canoni della trasmissione lineare per dialogare con particolari esigenze educative e formative. Tuttavia, ciò non significa formare i docenti per rispondere a bisogni “speciali”, bensì, al contrario, abituarsi a leggere l’intero contesto scolastico sotto il segno della differenza.
A questo aspetto va però aggiunta la competenza di gestire le grandi questioni etiche inerenti all’intercultura, tra relativismo e rischio di assimilazione. L’insieme costituito da un impianto teorico forte e dall’esperienza critica deve prevedere la capacità, da parte dell’insegnante, di affrontare i dilemmi dell’incontro (e scontro) di valori diversi, oltre agli strumenti metodologici per inserire la prospettiva interculturale nelle discipline scolastiche (storico-geografiche, letterarie, artistiche, scientifiche etc.).
Infine, per quanto riguarda in particolare la formazione iniziale, va promossa la presenza di insegnamenti di Pedagogia interculturale nelle Università, anche al fine di incrementare la conoscenza delle problematiche culturali, antropologiche, psicologiche e sociali relative all’intercultura.

Gennaro Lopez

 

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