Niente sarà più come prima. È questa l’espressione insistente di questi tempi riguardo al futuro, speriamo ravvicinato, che ci aspetta dopo la tragedia civile e sociale che ci ha colpito; tuttavia, non è la prima volta che lo si sente dire (ricordiamo l’11 settembre), quasi si avverta via via l’urgenza di cambi di paradigma nei vari settori della vita collettiva. Del bisogno di mutamenti se ne parla fin troppo, ma è davvero pesante che la spinta ad agire si consideri improrogabile solo a seguito di eventi dalle conseguenze potenzialmente spaventose.
Per parte sua, il nostro Paese ha più volte fallito le occasioni per una sua profonda riforma, non solo morale e intellettuale, come si diceva un tempo, ma non meno del funzionamento delle istituzioni che lo governano. La scuola è una di queste, centrale, fondamentale nello sviluppo di una società, ma che da queste parti non riesce proprio a essere considerata e trattata come tale, assieme alla ricerca scientifica e alla conoscenza in generale. In questo momento l’attività scolastica tradizionale è sospesa, l’emergenza pandemica l’ha spinta a sperimentare dal vivo e con rapidità canali d’insegnamento informatici a distanza, utilizzando una tecnologia già presente, ma pressochè mai sperimentata, malgrado l’esistenza di un Piano Nazionale per la Scuola Digitale (L.107/2015).
È difficile ricondurre a sintesi ciò che sta accadendo. I miei studenti non sembrano così entusiasti e rimpiangono spesso il rapporto vivo della classe, anche se fatto di noia, a tratti profonda, di un desiderio di altrove, di una tristezza poco consolabile. Chiedevo loro se finalmente non fosse per caso arrivato il momento di esprimersi al meglio, con mezzi più afferenti alla generazione dei nativi digitali, di spezzare la dimensione sempiterna del frontalismo didattico trasmissivo, di gestire liberamente la scansione oraria consueta, per non dire di non doversi svegliare all’alba e muoversi su mezzi affollati, ma di operare con la testa riposata e senza ritardare l’ingresso a scuola. Il leggero gradimento di queste ultime cose non intacca il giudizio dimesso sull’esperienza in corso. Ho suggerito loro di tenere un diario di questi giorni: non so se lo faranno, in genere non amano molto raccontarsi, almeno non con le parole.
Se questa fosse l’impressione generale, dubito che le varie piattaforme di e-learning riescano a trasformare il distanziamento sociale che ci viene imposto, in un rapporto a distanza vero e proprio, la cui sostanza è obbligata nei confronti di destinatari in fase di sviluppo della personalità; non si tratta di riprodurre il lavoro in classe in una dimensione virtuale, così diventa un puro sostituto, totalmente strumentale al paradigma conosciuto; dovrebbe, invece, essere la chiave di svolta per ripensare l’intero funzionamento della scuola una volta rientrati: gestione dell’orario, riorganizzazione degli spazi didattici adeguati all’uso delle tecnologie (confrontando la foto di una classe attuale con una d’inizio del ‘900 noteremo poca differenza in merito), canali nuovi per individualizzare e personalizzare l’insegnamento anche fuori del tempo curricolare (rispettando il diritto all’oblio contrattuale dei docenti).
Certo le questioni aperte appaiono enormi: difficoltà nell’accesso ai mezzi informatici, soprattutto da casa, nuove modalità per l’integrazione del gruppo-classe, regolamentazione del rapporto di lavoro, formazione di qualità per il personale (con adeguate risorse e non consegnata a scelte private) per l’uso delle nuove tecnologie, che sembrano in grado di spostare i limiti della didattica consueta. In altri termini: costruire i requisiti – non minimi – per la costruzione di un rapporto pedagogico vero anche senza compresenza fisica, che nulla tolga a quello conosciuto con la lettura di un buon testo e le parole di chi è chiamato a farne cogliere lo spirito e a sviluppare criticità.
Si può fare? Penso possa trattarsi di una nuova frontiera dell’insegnamento, impostasi a causa di un trauma violento, ma tutta da sviluppare. Purtroppo qui l’ottimismo, almeno il mio, segna il passo. Quattro riforme della scuola in venti anni sono il contraltare di un conservatorismo miope e distruttivo, espresso da una smania di cambiamenti, spesso velleitari, che anche quando sembrano porre le basi per fare della scuola una questione nazionale, ben presto vengono risucchiati da inerzia operativa e immobilismo politico. Del resto, nell’arco temporale richiamato, le innovazioni di rilevanza che hanno “scosso” la scuola sono riconducibili a due: il regolamento dell’autonomia e quello della contabilità, ma il fare scuola egemone non ha trovato stabilmente nuove pratiche. Forse stavolta, se apprendiamo dalla realtà, senza lasciare il campo solo alla scontata e comprensibile onda emotiva che seguirà questi mesi, potremo trovare le fonti di legittimità sostanziale per avviare con determinazione il cantiere scuola.
Riprendendo le osservazioni di Thomas Kuhn nel suo La Struttura delle rivoluzioni scientifiche possiamo pensare che se i risultati di questo periodo digitale saranno sufficientemente nuovi da attrarre uno stabile gruppo di “seguaci” e sufficientemente aperti da lasciare la possibilità di risolvere i problemi, potremmo forse entrare in un nuovo paradigma a cui guardare con largo interesse.
Sauro Partini