di Massimo Baldacci, presidente nazionale Proteo Fare Sapere
Per una scuola della Costituzione1
Nel mio intervento metterò a confronto due modelli di scuola: il modello neoliberista del capitale umano e il modello democratico di una scuola della Costituzione. Per la precisione, svilupperò una critica del primo e cercherò di argomentare a favore del secondo.
Da gramsciano non ritengo che il discorso sulla scuola possa essere isolato dal discorso complessivo sulla società e dal discorso sulla storia che ha portato la società a configurarsi in un certo modo. Quindi, sia pure a grandi linee, seguirò questa impostazione.
Partiamo dal modello neoliberista, e dalla sua vicenda storica. Il primo trentennio del dopoguerra (i cosiddetti “Trenta gloriosi”), pur con limiti e contraddizioni, era stato un periodo di crescita socioeconomica e di sviluppo dei diritti sociali e civili. Si era verificata un'espansione della scolarità e un certo riformismo, che – benché anch'esso contraddittorio e sofferto – aveva portato a importanti risultati, come la scuola media unificata, la scuola materna statale, ecc.
A metà degli anni Settanta si è prodotta una crisi economica e ideologica che ha modificato radicalmente questa situazione. Una crisi economica, prima di tutto. Non sono un economista, ma credo che non possiamo essere indifferenti alle dinamiche economiche nell’interpretazione del processo storico. Si è trattato di una crisi di accumulazione che ha portato a una ristrutturazione dell'economia capitalista su scala mondiale, dando il via a fenomeni come il post-fordismo, la rivoluzione informatica-tecnologica, la globalizzazione, la finanziarizzazione, ecc. (non mi soffermo su tali fenomeni).
Questa crisi si è accompagnata anche a un mutamento ideologico, la cosiddetta svolta neoliberista. La ratio del neoliberismo è quella di arginare il processo di sviluppo sociale e democratico delle nostre società, allo scopo di preservare il potere e i profitti delle classi dominanti.
Non si è trattato però di un neoliberismo classico, cioè semplicemente del depotenziamento dello stato a vantaggio del mercato. Se in una prima fase si è presentato ancora in questo modo, presto ha assunto i caratteri di un uso dello stato per la costruzione giuridica del mercato e la sua estensione all'insieme della società, cosicché tutta la vita sociale ricade sotto i meccanismi della concorrenza.
Non posso tracciare questo percorso storico in modo preciso, rinvio perciò all'ottimo lavoro di Dardot e Laval (2013). Questi studiosi pongono il momento genetico della parabola neoliberista nel 1938, quando Walter Lippmann (l'avversario di John Dewey in America) organizza a Parigi un convegno per presentare il suo volume “La società giusta”. Tale parabola prosegue nel dopoguerra con la costituzione della “Società del Monte Pellegrino” nel 1947, il think tank dell’ideologia neoliberista. Trascorsi i Trenta gloriosi, il neoliberismo ha poi compiuto la sua marcia trionfale: nel 1973, dopo il golpe di Pinochet, i Chicago Boys vengono chiamati a implementare in Cile le politiche socioeconomiche neoliberiste; negli anni Ottanta, i governi Thatcher e Reagan portano gradualmente all'egemonia del neoliberismo nei Paesi anglosassoni; negli anni Novanta, con la terza via di Blair, si assiste alla resa delle socialdemocrazie europee al neoliberismo; fino alla crisi del 2007/2008. Alcuni considerano tale crisi come la tomba del neoliberismo, personalmente sono però d'accordo con la diagnosi di David Harvey (2021). Secondo questo studioso, con quella crisi si è innescata una difficoltà di legittimazione del neoliberismo, ma quest’ultimo ha saputo riorganizzarsi, stipulando nuove alleanze con le destre populiste. Pertanto, si tratta di una vicenda che è ancora in corso di svolgimento.
L'affermazione di questa ideologia è stata preparata e accompagnata da una serie di altri movimenti ideologici. Fondamentale è stata la crisi del Marxismo, cioè della forma di pensiero che costituiva il naturale avversario del neoliberismo. Questa crisi inizia alla fine degli anni Settanta. Una famosa intervista ad Althusser, uscita nel Manifesto nel 1979, parla per la prima volta di crisi del Marxismo; negli stessi anni, Lucio Colletti va nella medesima direzione; finché, nel 1983, Bedeschi pubblica il volume “La Parabola del Marxismo In Italia”, in cui dichiara morto il Marxismo. Parallelamente a questo processo, a partire dal volume di Lyotard (1979), si verifica la nascita dell'ideologia postmoderna, l'ideologia della fine delle ideologie, che annuncia la fine delle Grandi narrazioni della storia, come quella appunto del Marxismo (ma non solo), e quindi il sopravvenire di un'epoca ispirata a un mero pragmatismo di marca efficientistica. Il culmine si raggiunge con l'annuncio della “fine della storia” (Fukuyama, 1992). L'implosione dell'Unione Sovietica porta a decretare che la democrazia liberale ha vinto su scala mondiale, e quindi è ormai senza avversari. Gli esiti sono stati in realtà diversi, ma prima di arrivare a questi diamo un cenno alla struttura dell'ideologia neoliberista.
Il suo assioma principale consiste nell’elevare la concorrenza a principio di tutta la vita sociale. Non solo l’ambito economico, ma l’intera società deve ricadere sotto il meccanismo del mercato. La condizione per l’efficienza dei sistemi sociali viene perciò individuata in una continua competizione tra i loro attori; in questo modo, la prestazione complessiva del sistema sarà massimizzata. Ciò ha un preciso corollario: ognuno deve diventare l’imprenditore di sé stesso, gestendo razionalmente il proprio capitale umano per ottimizzare le proprie prestazioni. Ma vi è un ulteriore corollario: il principio di autoresponsabilità. Ognuno raccoglie quello che merita. La responsabilità di ciò che si ottiene è solo di sé stessi, e quindi anche la colpa dei propri eventuali fallimenti.
Alcuni hanno visto in tutto questo un dispositivo governamentale, secondo l’ottica di Michel Foucault. Personalmente preferisco una lettura gramsciana. Il neoliberismo ha cercato di operare una trasformazione su vasta scala del senso comune, cioè di portare a un nuovo modo di sentire e di pensare. Il programma della Thatcher non era soltanto quello di cambiare la forma economico-sociale, realizzando il primato del mercato; era anche quello di cambiare l'anima delle persone, e ciò implica la formazione di un nuovo tipo umano. Pertanto, il nucleo del neoliberismo include un disegno pedagogico implicito, un progetto di pedagogia sociale. Occorre cambiare gli esseri umani per adeguarli alla nuova società e alla nuova fase di sviluppo.
Come dicevo, gli esiti effettivi sono stati un po' diversi da quelli annunciati. Si è verificato un grave inasprimento delle diseguaglianze socioeconomiche, che i lavori dell’economista Piketty (2014, 2017) hanno rilevato in modo preciso.
Si è innescata una deriva post-democratica, come l’ha denominata Colin Crouch (2003, 2020): lo svuotamento della democrazia; la sua riduzione a guscio formale; il predominio delle tecnocrazie; la conseguente disaffezione dei cittadini dagli istituti democratici e dalla partecipazione alla vita politica.
È avvenuto un processo di atomizzazione sociale, uno sfaldamento del tessuto comunitario delle nostre società, la nascita di un individualismo egoistico, il dilagare dell'indifferenza alle sorti degli altri, l’indebolimento della solidarietà sociale (si vedano i lavori di Bauman, 2000, 2002, 2003).
Infine, si è registrato un mutamento della Stimmung, dell’atmosfera che caratterizza i nostri giorni. Gli psichiatri sociali Benasayag e Schmit (2007) l’hanno definito come l'avvento dell'”Epoca delle passioni tristi”: il futuro non è più una promessa, è diventato una minaccia. Il futuro fa paura, provoca ansia, angosce. Il timore del fallimento è diventato una vera e propria una patologia sociale.
La trasformazione neoliberista ha investito anche la scuola in almeno due direzioni: in primo luogo, il tentativo fare della scuola una palestra di competizione; in secondo luogo, la riduzione della scuola a una fabbrica di capitale umano.
Per quanto concerne il primo aspetto, il principio della concorrenza, in quanto deve innervare tutta la vita sociale, esso deve diventare anche il motore del lavoro scolastico.
Le scuole vengono concepite come aziende che competono tra loro in una sorta di mercato della formazione. Per risultare vincenti, esse devono promuovere la concorrenza tra i docenti per la conquista di incentivi e premialità, e devono organizzare la vita scolastica come una gara meritocratica tra gli studenti.
In questo modo, si sostiene, si formerà l'imprenditore di sé, caratterizzato dallo spirito di iniziativa e dall’atteggiamento competitivo, e quindi la scuola diventerà una palestra per preparare i giovani alla lotta che li attende nella giungla sociale.
Passiamo alla riduzione della scuola a fabbrica di capitale umano. Per capitale umano s’intende lo stock di conoscenze e di competenze incorporate durante la formazione e utilizzabili nel processo di produzione.
Si sostiene che nell'epoca dell'economia globale fondata sulla conoscenza il capitale umano è diventato il primo fattore della produttività e della competitività dei sistemi socioeconomici. Pertanto, la funzione della scuola è quella di formare capitale umano, in quanto necessario alla salute del sistema produttivo. In altre parole, il rapporto tra scuola e società viene letto alla luce di un'equazione funzionalista: il compito della scuola è quello di essere al servizio del sistema socioeconomico. Lo scopo è quello della formazione del produttore competente (e competitivo, ovviamente).
All’incirca, questo è l'immaginario sociale legato al modello della scuola neoliberista. Rammento per cenni le tappe che hanno portato all'affermazione di tale modello.
Si può indicare l’origine di questo percorso nel 1983, quando il presidente Reagan commissiona a un gruppo di esperti un rapporto sulla qualità dell'Istruzione negli Stati Uniti. Questo rapporto esce col titolo “A Nation at risk”, e pronuncia una diagnosi estremamente preoccupata sulla qualità dell'istruzione americana, raccomandando il ripristino di meccanismi selettivi e meritocratici per garantirne la ripresa. Questo rapporto provoca un certo dibattito anche in Europa, e Norberto Bottani – un ricercatore dell’OCSE – nel 1986 dà alle stampe un libro famoso “La ricreazione è finita”. In questo volume, Bottani dichiara che le politiche degli anni Sessanta-Settanta – intitolate al raggiungimento dell'uguaglianza delle opportunità formative – sono fallite, e hanno finito per compromettere anche la qualità dell'istruzione. Occorre, perciò, una svolta che rimetta quest’ultima al centro delle preoccupazioni della politica scolastica.
A onor del vero, Bottani non asserisce che la qualità dell'Istruzione è incompatibile con l'uguaglianza, ma il titolo del volume (“La ricreazione è finita”) lascia intendere che tutta la stagione del riformismo scolastico sia da archiviare. Da allora, tale stagione diventerà uno dei bersagli preferiti dei conservatori, secondo i quali la scuola avrebbe subito un degrado imputabile al sindacato, alla pedagogia progressista, a Don Milani, a Bruno Ciari, ecc..
Anche in questo caso, alla metà anni Novanta si verifica uno slittamento verso la sponda neoliberista. Il rapporto Cresson (per l’Ocse) lega la questione della qualità dell’istruzione all’avvento di una società della conoscenza, mentre il rapporto Delors (per l’Unesco) cerca un compromesso tra la pedagogia neoliberista e quella progressista-socialdemocratica, ponendosi come l’analogo della terza via di Blair. Tali rapporti finiscono però per inclinare il piano nella direzione del neoliberismo, verso il quale da quel momento si tende a scivolare.
Per quanto riguarda il nostro paese, i passaggi successivi vanno dalla cosiddetta riforma Moratti (in realtà una controriforma), a quella del ministro Gelmini (ancora una controriforma), fino alla “Buona scuola” di Renzi (anch’essa da vedere come un capitolo di questo percorso verso la scuola neoliberista).
Il modello neoliberista della scuola è però segnato da limiti e da contraddizioni che è bene evidenziare.
In primo luogo, la dottrina del capitale umano è unilaterale: illumina soltanto la formazione del produttore, ma trascura la formazione del cittadino e, quindi, il raggiungimento dell'autonomia intellettuale e della capacità di pensiero critico che lo contraddistinguono. L’attenzione va soltanto alle competenze spendibili nel processo produttivo.
In secondo luogo, questa dottrina riduce l'individuo a mezzo anziché considerarlo come fine. Un principio fondamentale della pedagogia, di matrice kantiana, è che lo scolaro va sempre considerato come un fine in sé, mai come un semplice mezzo.
Invece, con la dottrina del capitano umano lo sviluppo dell'individuo diventa un mezzo per promuovere la competitività e la produttività economica.
Infine, occorre esaminare la questione della competizione meritocratica. Si tratta di un punto che avrebbe bisogno di essere trattato in modo approfondito. Qui mi limiterò a osservare che si tratta di una “seduzione alcinesca”. Questa espressione è di Benedetto Croce, che l'aveva utilizzata nella prefazione del 1917 a “Materialismo storico ed economia marxistica”.
Alcina era una maga vecchia, brutta e sdentata, che da lontano appariva però in sembianze di leggiadra fanciulla. Lo stesso accade per il merito e la meritocrazia. Se si guarda la questione da lontano, all'ingrosso, che ognuno debba avere quello che si merita appare un principio di senso comune. Se però si esamina analiticamente l'uso di questo principio nella formazione scolastica, ci si accorge che non è altro che una vecchia maga sdentata.
Quale dovrebbe essere concretamente il criterio per accertare il merito: la capacità? Proviamo a pensare a quale sia la fonte della capacità. Se tale fonte è sociale, cioè familiare, allora non c'è nessun merito nell'essere nato in una famiglia avvantaggiata sul piano sociale; si è trattato soltanto di fortuna. La fonte non è sociale, bensì genetica? La capacità è innata? Ammesso e non concesso, che merito ci sarebbe nell'essere stati fortunati nella lotteria genetica, nell'aver ricevuto buoni geni dai propri genitori?
Supponiamo invece che il criterio non sia la mera capacità, bensì la prestazione.
Bene, ma in una gara, la prestazione può permettere di valutare il merito soltanto se i concorrenti partono tutti dalla stessa linea. Se qualcuno parte avvantaggiato e altri svantaggiati, in qualsiasi sport si dice che la gara è truccata.
Trascurando questa elementare verità, si vuole invece sostenere l’attendibilità di una gara scolastica che in realtà è truccata, perché non tiene conto delle disuguaglianze di partenza. Quindi, una gara configurata in questo modo porta necessariamente a ratificare le disuguaglianze sociali.
Non solo. Una competizione meritocratica come principio della vita scolastica rende quest’ultima quel contesto di “passioni tristi” annunciato da Benasayag e Schmit. La vita scolastica si cosparge di ansia, di timori.
E poi quale sarebbe lo scopo di questa meritocrazia?
Giovanni Gentile, con la sua riforma del 1923, aveva le idee chiare sulla funzione della meritocrazia: coltivare la classe dirigente del paese, cioè un'élite colta e illuminata, nel quadro della riproduzione della stratificazione sociale vigente. In quei tempi, per un paese sostanzialmente agricolo, tendenzialmente statico dal punto di vista sociale, questo progetto – benché di tipo conservatore – poteva avere una sua logica. Ma oggi, nell'epoca dell'economia postindustriale, c'è bisogno piuttosto di un progresso intellettuale e morale di massa, per favorire lo sviluppo civile ed economico della società. Non abbiamo più bisogno semplicemente di un'élite colta e illuminata. Abbiamo bisogno di un popolo istruito e capace di pensare.
La stessa competizione tra i docenti appare altamente criticabile. Habermas, nel volume “La razionalità del capitalismo maturo” (1973), ha osservato che la fonte della motivazione è il senso, e che il senso è una risorsa rara e difficilmente sostituibile. Allora, lo svuotamento di senso legato alla scuola neoliberista, in cui l'insegnante diventa un commesso del capitale umano, difficilmente può essere surrogato da modesti incentivi economici. È soltanto dalla consapevolezza del senso del proprio lavoro, illuminato dallo spirito civico della Costituzione, che l'insegnante può acquisire una vera e profonda motivazione per il proprio lavoro.
Inoltre, in un sistema scolastico come il nostro, caratterizzato da una lunga tradizione burocratica, l’ideologia della competizione si è risolta in una marcata crescita dei controlli burocratici. Controlli che fanno sentire l'insegnante sorvegliato, e che sembrano mirare a intimorirlo, facendogli capire di essere sotto la lente dell'Istituzione. Si tratta di quel panottismo che, secondo Foucault (1976) sta alla radice delle forme del potere moderno.
Tuttavia, è davvero efficace un insegnante reso timoroso da continui controlli?
Erikson (1963), uno dei più importanti psicoanalisti del XX secolo, ha pronunciato un giudizio lapidario: “chi ha paura non può educare”. La capacità educativa di un adulto si regge sul suo senso di integrità, sulla sua autosicurezza, che il giovane percepisce e che è una condizione di un rapporto di fiducia verso il docente. Insegnanti nevrotizzati dalla competizione e intimoriti dai continui controlli rischiano uno scadimento delle loro capacità educative. Quindi, in realtà, si tratta di misure burocratiche controproducenti.
Passiamo adesso al modello di una scuola della Costituzione, che ci fornisce un quadro diverso.
Innanzitutto, occorre esaminare come appare la scuola nella Costituzione, cioè negli articoli che ne definiscono la natura e il compito generale. Citandoli in modo schematico: l'articolo 33 fonda la libertà di insegnamento; l'articolo 34 enuncia il diritto all'istruzione, da non intendersi come semplice diritto di accesso, bensì come diritto ad essere effettivamente istruiti, a conseguire quei traguardi di apprendimento che fanno la differenza per l'accesso ai diritti fondamentali del cittadino; il secondo comma dell'articolo 3 stabilisce che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitando la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione alla vita sociale e politica del Paese.
Già da questi articoli il compito generale che la scuola deve assolvere attraverso l'istruzione appare quello di promuovere il pieno sviluppo della persona, e raggiungere il proprio pieno sviluppo umano viene configurato come un diritto di tutti e di ciascuno. Nella Costituzione la persona è il fine, non è un mezzo (come nelle dottrine del capitale umano). E proprio promuovendo il pieno sviluppo di tutti e di ciascuno la scuola favorisce anche un progresso intellettuale e morale di massa, che può sostenere la crescita civile ed economica del paese.
Certamente, la scuola non può essere indifferente rispetto alla salute economica del paese, ma vi deve contribuire secondo la propria logica intrinseca, non secondo una prospettiva che le è estranea come quella del capitale umano.
Questo nucleo di articoli, benché fondamentale, non esaurisce però il contributo della Costituzione a un'idea di scuola. Si può allargare il raggio dell'analisi.
Per capire la questione, occorre mettere a fuoco il rapporto generale tra Costituzione e educazione. Questo rapporto è stato chiarito, in modo esemplare, nell'ottavo libro della “Politica” di Aristotele.
Cito testualmente: “bisogna che l'educazione si adatti a ciascuna Costituzione perché il costume proprio di ciascuna suole difendere la Costituzione stessa […] ad esempio, il costume democratico la democrazia quello oligarchico l’oligarchia.”
Aristotele ci dice che una Costituzione democratica esige un'educazione che formi i costumi democratici, perché solo così si creano le condizioni per difendere ed espandere la democrazia.
Questo principio è stato ripreso nel Novecento da John Dewey in “Democrazia e educazione” del 1916, la sua opera pedagogica principale. Dewey asserisce che c’è un'implicazione reciproca tra democrazia ed educazione: l'educazione è necessaria per mantenere e sviluppare la democrazia; la democrazia è la sede necessaria per sviluppare un'educazione autentica, diretta allo sviluppo umano di ciascuno e di tutti. Questo può avvenire pienamente soltanto in una democrazia. I totalitarismi non promuovono realmente un tipo di educazione di questa natura, e tendono piuttosto all’indottrinamento. Soltanto un Paese a Costituzione democratica mira a formare gli individui come cittadini democratici. L'aveva colto bene Don Milani che in “Lettera a una professoressa” asseriva che occorre educare i giovani a più alta ambizione che diventare medici o ingegneri, all'ambizione di diventare cittadini sovrani.
La Costituzione è la norma fondamentale della nostra legislazione, ma è anche un progetto politico-sociale, un modello culturale. E questo progetto esprime un ideale, l'aspirazione a una certa forma di vita, a un certo modo di vivere insieme. Dewey aveva una concezione antiformalista della democrazia; nel 1888 in “Etica della democrazia” scriveva che la democrazia non è soltanto una forma di governo: prima di tutto è una forma di vita, è un modo di vivere insieme, un sentimento condiviso.
Come progetto ideale, la Costituzione affonda le proprie radici in un substrato di valori fondamentali accettati e condivisi. Valori non imposti, ma che sono il frutto dell'esperienza storica della nostra comunità, di un apprendimento storico (una categoria messa a fuoco da Domenico Losurdo; 2021). L'uomo, o meglio le comunità umane apprendono dalla storia, quindi i valori della Costituzione non sono arbitrari, sono il frutto della nostra esperienza, di conflitti, lacerazioni e ricomposizioni. E questi valori sono oggi incarnati nei principi della Carta costituzionale.
Tali valori, nel loro insieme, formano un orizzonte culturale capace di indicare un orientamento generale all'educazione dei giovani. Una scuola della Costituzione è quella che attua un'educazione coerente con i valori della Costituzione stessa. E per “coerenza” non si deve intendere soltanto la compatibilità con essa, cioè l’assenza di contraddizione. Tale coerenza va anche intesa in modo positivo: nel senso di una forma di educazione che sia ispirata ai valori della Costituzione, che sia in accordo con essi.
I valori della democrazia e del lavoro, della persona, della solidarietà, dello sviluppo umano di tutti, della laicità e della libertà religiosa, della cultura e della scienza, dell'asilo allo straniero, della pace, della libertà personale, della libertà di opinione e del diritto di manifestarla. Questi valori rappresentano una tavola capace di orientare la formazione delle giovani generazioni.
Educare e istruire nello spirito della Costituzione non significa però che la Costituzione debba diventare una materia, o meglio non significa soltanto questo.
In primo luogo, la Costituzione deve rappresentare un orizzonte di riferimento per la vita scolastica; cioè, i suoi valori devono pervadere l'intera esperienza della comunità scolastica, devono diventare un modo di stare insieme a scuola, devono innervare gli stessi modi di insegnare.
Bruno Ciari, nell'introduzione al suo volume “Le nuove tecniche didattiche” (1962), scriveva che i modi dell’insegnare non costituiscono mere tecnicalità, bensì incarnano valori e sono i modi per realizzare tali valori. Il più bell’esempio ci è venuto forse da Mario Lodi. Se rileggete quello straordinario volume “C'è speranza se questo accade al Vho” troverete numerosi esempi di quello che sto dicendo. Ne cito soltanto due.
Il primo concerne il passaggio di Lodi dalla competizione alla cooperazione.
All’inizio, giovane maestro sprovveduto, egli adotta una metodologia gesuitica: organizza il lavoro scolastico come una gara tra i suoi alunni. Gli alunni, sulla base delle loro prestazioni, ricevono punteggi. C'è una sorta di gioco dell'oca, di giro d'Italia: il segnalino di ogni alunno percorre tante caselle quanti punti ha conseguito.
Fino a che, scrive Lodi, le lacrime disperate del bambino che era rimasto ultimo, staccato da tutti, lo misero in crisi e lo fecero riflettere se quella era la strada giusta. Da quella crisi Lodi riemerse assumendo la solidarietà e la cooperazione come l'orizzonte del suo modo di fare scuola.
Inoltre, Mario Lodi era fortemente colpito della Costituzione, e in particolare dall'articolo 21 sulla libertà di parola e la libertà di espressione. Ragionava in modo semplice: se c'è questo diritto, esso spetta anche i bambini. Pertanto, la scuola deve diventare un luogo di parola, di dialogo, di discussione, perché soltanto in questo modo potremo formare cittadini capaci di prendere parte alla discussione democratica.
Vado verso le conclusioni. Una scuola della Costituzione ha al suo orizzonte almeno due grandi finalità. La prima è quella dell'integrazione dell'individuo nella comunità democratica dei cittadini: a scuola si entra individui e si dovrebbe uscire cittadini democratici. La seconda, complementare con la precedente, è rappresentata dall’emancipazione individuale, dalla conquista dell'autonomia intellettuale. Con Dewey, ritengo che la prima forma di emancipazione sia l'emancipazione dell'intelligenza; in senso kantiano, la capacità di pensare con la propria testa e il coraggio di farlo. Il cittadino deve essere cioè equipaggiato di spirito critico, per poter essere realmente protagonista della vita democratica.
Questo significa che i valori della Costituzione vanno vissuti per essere apprezzati, ma devono diventare anche oggetto di riflessione e di discussione, affinché non siano assimilati inconsapevolmente ma siano compresi, e quindi siano scelti liberamente (o liberamente rifiutati). Un paese democratico non ha timore di discutere sui propri fondamenti, questo è un timore che caratterizza i totalitarismi. Discutere sui valori fondamentali della convivenza civile è stata la lezione socratica, una lezione che Martha Nussbaum – nel volume” Coltivare l'umanità” (1999) – ha invitato a riprendere.
Questo è il bivio che sta di fronte a noi. Si deve scegliere se essere i commessi del capitale umano o gli insegnanti della Costituzione.
[1] Versione originaria: M. Baldacci, La scuola e l’istruzione fra capitale umano e principio educativo fondato sulla Costituzione, relazione al convegno “Istruzione: diritto universale incondizionato e risorsa sociale”, Roma, 2 marzo 2023, promosso dalla Flc-Cgil.