Va da sé che discutere adesso di scuola senza concentrarsi sulle incognite organizzative della riapertura pare quasi un lusso, ma siccome prima o dopo l’emergenza sanitaria passerà e torneremo sulle nostre annose questioni, vorrei richiamare la riflessione su un paio, a mio parere ormai ineludibili se puntiamo a mutamenti di fondo del sottosistema scolastico, vale a dire la selezione e lo stato giuridico del personale docente. Partiamo dalla prima.
L’instabilità dei canali con cui accedere al ruolo d’insegnante ha raggiunto ormai livelli inaccettabili, quasi non fossimo capaci di stabilire delle procedure valide nel tempo. Non era concettualmente sbagliata l’istituzione delle SIS, in quanto raccoglieva l’idea che l’accesso all’insegnamento non dovesse essere qualcosa che ad un certo punto s’improvvisasse nella biografia dei singoli, anche se spinti da una sacrosanta ricerca di occupazione (si iscrivono ai concorsi anche ultracinquantenni ormai), ma un percorso la cui scelta poteva stare già negli indirizzi di studi universitari. Abbandonate le SIS per ragioni contorte, la sequela dei nuovi canali d’ingresso è divenuta anche difficile da seguire e tutti conosciamo lo stato dell’arte. Non avendo modelli da suggerire tranne riprendere quanto ideato dalla riforma Berlinguer, vorrei spostare il tiro su quella che è la cultura selettiva e i criteri che ne derivano, non solo per la scuola ma penso possa valere per l’intero comparto pubblico. Malgrado alcuni propositi e tentativi di inserire innovazioni, l’orientamento insormontabile che ispira la valutazione delle prove concorsuali resta pervicacemente il medesimo: l’esercizio di memoria, sia per chi si prepara, sia per chi esamina, come autorevolmente rilevato da Sabino Cassese. Le ragioni? Forse l’attitudine mnemonica definisce soggettività più affini al paradigma confortante del controllo piuttosto che a quello sperimentale e incerto dello sviluppo? Ma un insegnante non dovrebbe essere spendibile più sul secondo? Potrebbe allora innescare mutamenti l’introduzione di criteri di selezione che diano invece peso all’esperienza e alla capacità di risolvere i problemi, spesso così intimamente legate? Quante volte la domanda sul che fare si propone all’interno della vita delle nostre scuole ed eccezionalmente adesso? Non consistono poi in questo le tanto decantate competenze? Si dirà che all’inizio l’esperienza diretta manca, ma una strutturata fase tirocinante di debita durata orienterebbe già in tal senso. Non è pensabile, ad esempio, che per selezionare dei dirigenti scolastici si arrivi alle vicende dell’ultima tornata concorsuale dove, nella legittimità sostanziale, si è superato il limite della vergogna fin da subito (la Cineca, produttrice dei quiz, era stata già diffidata dal TAR, e si rilegga la pesante stroncatura di merito da parte della FLCGIL).
Ma esperienza e capacità di risolvere problemi mi portano sulla seconda questione di cui all’inizio.
Sulla valutazione performativa di docenti e presidi (se la vogliamo davvero e mi scuso per l’aggettivo) conosciamo la situazione: per i docenti non esiste; per i presidi, nei fatti, appare uno scatolone vuoto, malgrado gli sforzi legislativi avanzati in tempi recenti. Credo che, a questo punto, la via per provare a sanare certe distorsioni e magari liberare dinamiche virtuose, potrebbe essere quella di costruire un iter di carriera per gli insegnanti, cambiandone lo stato giuridico, sanando così un’anomalia all’interno del comparto pubblico: solo nella scuola si entra e si esce con lo stesso profilo, nella totale assenza di stimoli istituzionali, il cui vuoto viene riempito da autocandidature per le varie funzioni, quindi autorevocabili, ratificate dall’organo collegiale e mal retribuite. I passaggi di carriera dovrebbero fondarsi proprio esaltando in larga parte l’esperienza e la capacità di individuare e sciogliere i problemi, includendo così anche la scelta dei presidi, a tutt’oggi sprovvisti di effettivi poteri dirigenziali. L’organizzazione tecnico-formale di tutto ciò richiederebbe impegno e risorse (non molte comunque), ma non sarebbe probabilmente il problema più grosso, senz’altro inferiore ad altri due contro i quali verosimilmente, temo, si alzerebbero alcuni muri: l’affermarsi di una complessità procedurale per la professione docente e la decisione che in questo paese la scuola sia attraversata da processi di valorizzazione e diventi un una priorità.