La gestione dell’emergenza pandemica ha messo in drammatica evidenza una diffusa criticità dei rapporti istituzionali tra Stato, Regioni e Comuni, a dimostrazione che le norme derivate dall’attuale Titolo V della Costituzione (in particolare, dagli articoli 117 e 118) si dimostrano spesso inefficienti e inefficaci, probabilmente anche a causa di ambiguità riscontrabili nella formulazione della stessa norma costituzionale (la cosiddetta “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni ne è – credo – la manifestazione più clamorosa). A farne le spese sono stati soprattutto i due settori oggettivamente più colpiti dalla crisi pandemica: la sanità (soprattutto), ma anche l’istruzione. Il Titolo V della Costituzione descrive il sistema delle autonomie (di cui fa parte – è bene ricordarlo – l’autonomia scolastica) sulla base del principio di “sussidiarietà”, vero e proprio cardine della regolazione dei rapporti tra i diversi livelli istituzionali, da un lato (sussidiarietà verticale), ma anche, dall’altro lato, tra istituzioni e autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati (sussidiarietà orizzontale, in base a quanto prescrive l’ultimo comma dell’art. 118). Difficile sottrarsi alla constatazione che la gestione dell’emergenza ha spesso generato conflittualità in luogo di sussidiarietà; dunque una sussidiarietà smarrita e, ancora peggio, smarrito il valore etico che dovrebbe darle senso: la solidarietà.
A sottolineare la rilevanza di questo principio, basti richiamare la sua applicazione nell’ambito dell’Unione Europea, dove (come stabilito, ad esempio, dal Trattato di Maastricht) la Comunità deve intervenire solo quando gli obiettivi dell’azione prevista non vengono realizzati dai singoli Stati membri e trovano quindi realizzazione a livello comunitario. Si tratta, appunto, di sussidiarietà verticale, che esprime la relazione tra i diversi livelli di governo e si esplica tramite un intervento sussidiario degli enti sovraordinati rispetto a quelli subordinati: i primi intervengono quando i secondi non riescono ad operare per il raggiungimento degli obiettivi prefissati e necessitano di un sostegno. La sussidiarietà orizzontale esprime, invece, una relazione tra soggetti che stanno sullo stesso piano e cooperano per il perseguimento di obiettivi comuni e condivisi o per una più efficace gestione delle criticità. Mi limiterò qui a considerazioni relative all’ambito scolastico, alla luce di una sussidiarietà assai poco e male attuata, sia in senso verticale sia in senso orizzontale. Basti qui richiamare il triste spettacolo a cui si è assistito (arricchito da dispute, scontri politici, divergenze istituzionali, contraddizioni, negligenze ed omissioni), spettacolo che potremmo intitolare “Apri, chiudi, riapri e richiudi”. Nessuno contesta il fatto che ci si sia trovati a fronteggiare un’emergenza assolutamente inedita, oltre che drammatica; tuttavia, resta inaccettabile e incompatibile con una Repubblica, auspicabilmente “bene ordinata”, che diverse e contrastanti decisioni abbiano riguardato scuole inserite in analoghi contesti socio-sanitari. Anche questo ha contribuito a consegnare all’opinione pubblica l’immagine, poco edificante, di una scuola subordinata ad altre priorità. A emergenza superata, sarà forse il caso di porre mano seriamente, se non proprio al Titolo V (una cui revisione, pur necessaria, richiederebbe però tempi, modalità e accordi politici a mio avviso oggi impraticabili), almeno alle norme di Legge che da quel Titolo discendono, cercando di dare spazio, voce e respiro anche all’autonomia scolastica, risultata totalmente negletta in questi aspetti della gestione della crisi (le istituzioni scolastiche sono state né più né meno che “terminali” di altrui decisioni).
Qualcosa, viceversa, si è cercato di fare sul piano della sussidiarietà orizzontale, in particolare attraverso i cosiddetti “patti educativi di comunità”, che pare abbiano ben funzionato là dove l’istituzione scolastica è stata in grado (o è stata messa nella condizione) di esprimere una sua centralità nella programmazione e nella gestione di attività educative e formative da realizzare sul territorio di pertinenza. Sarebbe comunque interessante poter disporre di dati statistici e, soprattutto, di rendiconti valutativi per avere un quadro esauriente che ci faccia capire dove, in che misura e con quale efficacia abbiano funzionato questi “patti educativi”. In realtà, ad una prima impressione, non sembra particolarmente significativa la loro incidenza a livello di sistema. E non sono mancati casi che hanno visto la scuola svolgere un ruolo marginale, se non addirittura ancillare, limitato magari alla messa a disposizione di strutture e di spazi. Ma qui la sussidiarietà incrocia un altro, decisivo tema, fin qui appena accennato: quello dell’autonomia scolastica, a partire dal modo in cui ogni istituzione scolastica interpreta e rende concreta la propria autonomia. Perché spetta in primo luogo alla scuola sapersi conquistare la necessaria “centralità” (la regia, potremmo dire) nelle iniziative di educazione, istruzione e formazione destinate al proprio territorio; iniziative che non sono “altro” rispetto alle “normali” attività legate ai curricula, ma con esse necessariamente si integrano nell’ambito di una programmazione non autoreferenziale, ma proiettata ben al di là delle aule e dell’edificio scolastico. D’altra parte, non c’è obiettivo pedagogico, declinato in termini di inclusione e di “discriminazione positiva”, che possa essere perseguito al di fuori di un proficuo rapporto tra scuola e territorio. Le norme che regolano l’autonomia scolastica prevedono, dal canto loro, che la scuola realizzi attività di ricerca e sperimentazione al fine di corrispondere alle esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale: applicare questa indicazione in modo esaustivo ed efficace richiede alla scuola una capacità non soltanto di ricezione e registrazione dei “bisogni formativi” del proprio territorio, ma anche (per non dire soprattutto) la capacità di far sì che tali bisogni vengano sollecitati ed emergano in soggetti talmente emarginati da non essere neppure in grado di esprimerli. La scuola che opera in questa direzione, che interpreta con questa visione la propria autonomia, conquista di fatto la propria “centralità”, senza doverla necessariamente rivendicare (questione di “egemonia”, si vorrebbe chiosare …). Tuttavia, che la scuola autonoma abbia bisogno – per dispiegare tutte le sue potenzialità – di una forte sussidiarietà orizzontale, non è ancora diventato senso comune. I nodi da sciogliere sono complessi e richiedono – è bene saperlo - elaborazione e impegno su due fronti, culturale e politico. Applicare l’autonomia ad un contesto allargato implica l’abbandono di ogni concezione burocratica e l’apertura coraggiosa alla partecipazione e alla gestione democratica, fino alla sperimentazione di forme di autogestione; significa saper vedere una “comunità educante” che si estende ben al di là del recinto scolastico e sa promuovere “cittadinanza attiva”; vuol dire essere in grado di cogliere il valore sociale e autenticamente democratico di una sussidiarietà praticata nella sua essenza culturale, secondo un principio di solidarietà sociale mirata alla promozione e allo sviluppo della persona umana, così come ci chiede la Costituzione della Repubblica. La sfida sta dunque in questo: fare un salto di qualità passando da un’autonomia burocratica ed autoreferenziale ad una autonomia “sussidiaria”. Ne ha bisogno la nostra scuola, ne ha bisogno – ancora di più – la nostra società.
Gennaro Lopez
7 aprile 2021