Sono molto d’accordo con le riflessioni e le proposte di Dario Missaglia sul tema della “pandemia secondaria”, in particolare sulla necessità di riscrivere, o meglio, di integrare il Protocollo pedagogico con una riflessione sul tema del “prendersi cura” come dimensione della professionalità docente, tuttavia, prima di immaginare uno spazio ad hoc nell’organizzazione del lavoro docente da dedicare al “prendersi cura”, non dobbiamo dimenticare che la pandemia ha solo messo in evidenza le criticità già presenti nella nostra scuola da molti anni.
Criticità che, nonostante i continui processi di riforma (troppi?) di questi ultimi vent’anni, si sono acuite.
Ci vorrebbe troppo tempo per elencarle tutte argomentandole, mi limiterò ad individuarne alcune per sommi capi individuando quelle che durante la pandemia hanno messo in crisi le nostre scuole.
- La situazione sanitaria ha messo in evidenza le gravi carenze strutturali sul piano dell’edilizia scolastica, le aule affollate non potevano e tutt’ora non possono più esistere, ma non bastano gli investimenti per abbattere muri e tramezzare spazi, dietro gli investimenti per l’edilizia scolastica ci deve essere un’idea di spazio educativo diverso dalla semplice aula, un’idea di scuola nel territorio, ma anche un’idea di territorio nel quale la scuola possa giocare un ruolo da protagonista per innalzare il livello culturale della sua popolazione.
- La situazione sanitaria ha quindi messo in evidenza il tema delle classi “pollaio”, il tema dei trasporti e dei percorsi casa scuola da ripensare, il tema delle risorse umane necessarie, il tema del ruolo del territorio quando la scuola è chiusa, ma non possiamo non domandarci cosa c’è a monte di questioni che sembrano essere così concrete e tangibili e risolvibili con un po’ di investimenti economici sia pur importanti.
A monte ci sta il bisogno annoso di ripensare complessivamente la nostra scuola ma non con riforme che, da un lato ne lasciano intatta la struttura, e dall’altro non avviano una profonda riflessione culturale sui saperi e sull’approccio alla conoscenza, sulla necessità di superare la rigida settorializzazione per discipline lasciando spazio ad una didattica laboratoriale, come diceva Edgar Morin “Lo sviluppo di una democrazia cognitiva è possibile solo all’interno di una riorganizzazione del sapere, che richiede una riforma di pensiero volta non solo a separare per conoscere, ma anche interconnettere ciò che è separato e nella quale rinascerebbero in modo nuovo le nozioni frantumate del frazionamento disciplinare”¹ E ancora, sul rapporto scuola-società, o per meglio dire “scuola e modello sociale”, (Dice Dario Missaglia, in un altro suo scritto, non si può insegnare senza sapere dove va la società). Una riflessione dunque, che deve portare ad un profondo rinnovamento della didattica ma soprattutto ad un profondo rinnovamento dell’organizzazione del lavoro che valorizzi e non mortifichi l’autonomia scolastica. E ad una visione diversa degli spazi educativi, spazi che dovranno includere anche il territorio.
Se partiamo da queste riflessioni ne conseguirà la necessità di
Durante la pandemia docenti e dirigenti, come si dice in gergo, si sono rimboccati le maniche ed hanno cercato di far fronte ai pesanti problemi che la situazione sanitaria ha imposto. Inventarsi dall’oggi al domani un diverso modo di insegnare utilizzando la didattica a distanza e senza risorse tecnologiche adeguate in molti casi, non era praticamente possibile, così, lezioni frontali, verifiche e interrogazioni dall’aula fisica si sono trasferite all’aula virtuale; sicuramente molti insegnanti avranno dato vita ad esperienze innovative di tutto rispetto, esperienze che andrebbero valorizzate e utilizzate e non lasciate nel chiuso delle singole scuole.
Ora quindi ci troviamo dinanzi a studenti spesso in crisi come molte recenti indagini testimoniano e quindi, come giustamente dice Dario ci troviamo a dover affrontare la “pandemia secondaria”.
E dunque, sì, “prendersi cura” della situazione delle nostre bambine e dei nostri bambini, delle nostre studentesse e dei nostri studenti, è diventato per gli insegnanti un imperativo professionale, ma, a mio avviso, prima di pensare a quali spazi individuare nella loro organizzazione del lavoro, credo ci sia il bisogno di “prendersi cura” degli insegnanti, dei dirigenti e di tutto il personale delle scuole, perché in questo tremendo periodo in cui una pandemia sanitaria si è abbattuta su una scuola “malata” senza strumenti per affrontarla, anche gli insegnanti ed i dirigenti professionalmente più preparati e più impegnati hanno vissuto momenti molto difficili, perché lavorare senza strumenti per affrontare crisi di questa portata è a dir poco fuor di logica.
È dunque giunto il momento che, Ministero, Organizzazioni sindacali e Istituzioni territoriali, mettano mano seriamente, in modo sistemico, alle questioni di fondo che hanno fatto ammalare la scuola, dai problemi legati all’impianto culturale, ai problemi dell’edilizia scolastica, a quelli degli organici e dell’organizzazione del lavoro, ai problemi della formazione del personale tutto, dai dirigenti ai collaboratori scolastici.
Solo allora, quando sarà evidente a tutti la volontà politica di ridare davvero valore alla nostra scuola, gli insegnanti avranno voglia di “prendersi cura” dei loro studenti nelle forme e nei modi che Dario ha proposto.
È vero, che per i nostri studenti è urgente prendersi cura di loro subito, ma dimostriamo a insegnanti e dirigenti che stiamo avviando un percorso di risoluzione degli annosi problemi che affliggono la scuola, non partendo dal tetto, ma dalle fondamenta e smettiamola di fare riforme che non portano ad alcun risultato perché non affrontano i problemi strutturali. Smettiamola di produrre norme che aumentano il livello di burocrazia e non risolvono i problemi.
Leggo proprio oggi, mentre scrivo queste note, la lettera del Ministro Bianchi4 su Repubblica nella quale si parla di riforme strutturali ma il mio timore è che, ancora una volta, riforme si aggiungano a riforme senza mettere in discussione i nodi culturali di fondo e l’organizzazione del lavoro, riforma, quest’ultima, che non può avverarsi senza una vera e profonda valorizzazione della professione docente. Tra le riforme citate il Ministro non inserisce la necessità di ripensare e se necessario riformare il percorso della scuola dell’obbligo. Il segmento della scuola secondaria di primo grado è quello che avrebbe maggior bisogno di essere ripensato. Gli istituti comprensivi sono comprensivi solo di nome, di fatto i due segmenti scolastici della primaria e della secondaria di 1° grado vivono , come si suol dire, da “separati in casa”. È ora di pensare davvero ad un percorso unitario dell’obbligo scolastico. Ed è forse da qui che bisogna ripartire.
Ritornando al problema posto da Dario Missaglia proviamo allora, in questo periodo così difficile, ad immaginare anche percorsi di formazione che “si prendano cura degli insegnanti e dei dirigenti”.
Che cosa significa, a mio avviso, “prendersi cura delle professioni” , come dice Dario Missaglia riferendosi degli studenti, significa prima di tutto ascoltarle, valorizzare le esperienze fatte in questi due anni di grande difficoltà, far emergere ciò che di buono si è fatto, promuovere la capacità e di innovazione e la creatività attraverso momenti di riflessione e di rielaborazione del periodo trascorso. E su questo terreno Proteo Fare Sapere penso abbia molto da dire e da proporre. Indicazioni in questa direzione si possono trovare nel testo “La voglia di insegnare” che mi ha visto coautrice insieme a Sergio Greotti, Giovanna Facchini e Beppe Pasini edito da Edizioni Conoscenza. Mi permetto di riportare all’interno di queste note, per rafforzare quanto prima esposto, ciò che dicevamo nell’introduzione al libro, correva l’anno 2015:
“Questa ricerca nasce dalla convinzione che nessuna riforma della scuola otterrà gli esiti sperati se non si mette in atto una riflessione profonda sul tema della professionalità dei suoi operatori , docenti e non, e sulle condizioni di lavoro in cui viene esercitata. Ma è nata anche dal desiderio di sperimentare nuovi modi di fare formazione attraverso la pratica della ricerca-azione e della riflessione metacognitiva. La disponibilità degli insegnanti a riflettere sul proprio lavoro e a confrontarsi con altri è sensibilmente diminuita in questi anni, (oggi diremmo che in questi due anni di emergenza è quasi scomparsa) in parallelo con l’aumento delle richieste nei loro confronti. Richieste che, se non vengono calate all’interno di processi di innovazione e di ricerca sono avvertite come “esterne” rispetto alla “normale” attività quotidiana e quindi fonte di ulteriori carichi di lavoro.
Mentre cala la considerazione sociale del lavoro degli insegnanti e le retribuzioni rimangono ferme.
Più in generale ha pesato sugli insegnanti la difficoltà (avvertita anche all’interno di altri grandi servizi pubblici come la sanità e la giustizia) a dare un senso condiviso al proprio lavoro. Da parecchio tempo (almeno 20/30 anni) sono all’opera nelle società avanzate potenti forze economiche e culturali che hanno messo in discussione i diritti sociali acquisiti nella fase precedente e in particolare il valore del lavoro come collante della società. Eppure anche in tutte le discussioni sulla riforma della scuola secondaria superiore sempre si insiste sulla necessità di un robusto collegamento con “il mondo del lavoro”. Ma forse il compito che è corretto assegnare alla scuola è quello di riflettere in profondità sulle “culture del lavoro” più che quello di fornire professionalità già definite.
Anche la nostra ricerca in fondo riguarda la “cultura del lavoro” perché immagina una cultura professionale, frutto di passione e creatività, che può essere condivisa ed alimentata attraverso lo scambio di competenze ricavate dall’esperienza quotidiana. E che intende muoversi in direzione di quella riorganizzazione del sapere che non è frutto di tecnicismi ma di una riforma generale del pensiero, come afferma con grande incisività Edgar Morin. Intervenire sui curricoli in una logica di mero risparmio come si è fatto in questi anni da parte dei diversi governi o aggiungere competenze su competenze, impegni e obblighi, retribuiti ma non sempre, è perfettamente inutile se non si interviene sull’organizzazione del lavoro e se non si dà riconoscimento sociale e dignità ad una professione così delicata e complessa come quella docente. Tuttavia bisogna anche avere il coraggio di far emergere le incompetenze dicendo con chiarezza che è necessario intervenire attraverso un grande lavoro di formazione. Le parole d’ordine, dunque, dovrebbero essere formazione, orario, salario e valutazione. … Hanno fatto da sfondo alla nostra ricerca alcune considerazioni. L’istituzione dell’autonomia scolastica che avrebbe dovuto essere il volano per avviare una seria ristrutturazione di tutto il sistema non ha portato ai risultati sperati, anzi, i provvedimenti di riordino (non si è tratto di vere e proprie riforme) dei cicli scolastici degli anni dal 2009 al 2012 hanno di fatto limitato l’efficacia dell’autonomia. I continui tagli dovuti alla crisi economica hanno deprivato le scuole anche delle risorse essenziali per il funzionamento di base. Se questo, in estrema sintesi è il quadro a livello istituzionale, va detto che nulla è stato fatto per migliorare la condizione professionale degli insegnanti. ...
Questi sono solo alcuni dei nodi che dovrebbero essere affrontati per migliorare la qualità del nostro sistema di istruzione e la condizione professionale degli insegnanti. Le inadempienze sopra descritte hanno generato una scarsa considerazione dell’opinione pubblica nei confronti degli insegnanti, solitamente considerati dei privilegiati e poco redditizi. Il ruolo sociale dell’insegnante e della scuola nel suo complesso da troppi anni ha smesso di essere al centro della politica. Lo farà la pandemia?
Oggi, vicino a molti insegnanti che, nonostante le difficoltà, continuano a lavorare con passione, oggi, al tempo della pandemia non ci sono quasi più, ve ne sono tuttavia molti smarriti e demotivati, si percepiscono come inutili ed impossibilitati ad incidere minimamente sulla formazione dei loro studenti. Ci siamo quindi posti alcune domande cui, con la nostra ricerca, abbiamo voluto tentare di dare risposte con lo scopo, da un lato di costruire una fotografia il più possibile fedele dell’insegnante di oggi e, dall’altro, di avanzare proposte per affrontare i problemi descritti nello sfondo della ricerca. Problemi che, a nostro avviso, se affrontati con serietà, potrebbero ridare alla scuola il ruolo sociale che le spetta e agli insegnanti il giusto riconoscimento, ma soprattutto far ritornare la passione per l’insegnamento condizione necessaria per promuovere negli studenti la voglia di imparare. Tre le parole chiave intorno alle quali abbiamo costruito le domande : consapevolezza, identità, passione.
Consapevolezza
Identità
Passione:
Abbiamo organizzato la ricerca in una fase quantitativa, attraverso lo strumento del questionario ed una fase qualitativa attraverso un percorso di formazione che è stato seguito da due gruppi di insegnanti di due istituti comprensivi della città in cui maggiore era stata l’adesione alla proposta di compilazione del questionario. Articolando in questo modo il nostro intervento abbiamo inteso non soltanto raccogliere l’esigenza, di “dare voce agli insegnanti”, ma anche coinvolgere i docenti disponibili in una attività laboratoriale di riflessione sul proprio lavoro, con approcci innovativi capaci di far emergere quella che potremmo definire la “profondità del quotidiano”.
Proviamo dunque a dar voce agli insegnanti e a tutte le figure professionali della scuola attraverso un diverso modo di fare formazione che privilegi la dimensione professionale dell’insegnante “riflessivo”, come diceva Giancarlo Cerini, del dirigente riflessivo, ma anche del collaboratore scolastico “riflessivo” e delle altre figure della scuola.
Ho avuto modo di scrivere sempre nel 2015 o forse nel 2016 che
“l’insegnante riflessivo è anche un insegnante accogliente che si prende cura dei suoi studenti, ne sollecita la motivazione e ne comprende le preoccupazioni. Prendersi cura significa ascoltare, accompagnare gli studenti nel loro percorso di crescita non solo affettiva ma anche cognitiva, e allora, un insegnante riflessivo e accogliente, saprà stimolare nei suoi allievi capacità critiche e creative attraverso un dialogo che sappia valorizzare le loro opinioni ma nello stesso tempo li aiuti a riflettere sul loro percorso di crescita. Ma saprà anche riflettere sulle fragilità dei suoi studenti, sulle loro insicurezze frutto di una società che troppo spesso non li aiuta e magari se ne dimentica.
Ancora, l’insegnante riflessivo sa attribuire la giusta importanza alla documentazione del proprio lavoro che non può essere considerata un semplice atto burocratico, ma un’ occasione ed uno strumento importante per riflettere sul proprio agire professionale. La documentazione aiuta il processo di riflessione metacognitiva, tratto identitario fondamentale della professione docente, ma aiuta anche a “fare memoria”, a documentare la storia della scuola, oltre che a condividere le esperienze con i colleghi in un reciproco arricchimento.
L’insegnante riflessivo predilige, tra le attività di formazione, quelle che prevedono percorsi di ricerca-azione “dove le esperienze di insegnamento entrano in gioco in un continuo farsi e disfarsi per generarne di nuove dove confluiranno emozioni e apprendimenti, cura della relazione, azioni cognitive cruciali dell’insegnare”(G.Cerini) e dove l’insegnante ritroverà la passione per il proprio lavoro.”
Wilma Boghetta, Proteo Brescia