Elaborare (un dolore, una perdita, un abbandono, la fine di una storia… etc.) è fondamentale e necessario, ma in nome di ciò – oggi nello specifico degli articolati “effetti collaterali “ connessi alla situazione drammatica e nera del Covid – si tende a calcare, marcare, enfatizzare, sottolineare con varie “strategie” (assegnandone valore risolutivo, efficace ed efficiente) con i bambini… che forse, senza certi noi adulti (così premurosi e perspicaci) avrebbero meno paure, angosce & affini.
E poiché capita di vedere (o apparire) qualche bambino un po’ troppo stanco o agitato, insonne, irritabile, saltellante, dinoccolante – come animale in cattività – carichiamo la dose.
E allora diventa facile l’equazione “elaborare – esasperare“.
Sembra quasi che non si possa parlare di altro, se non di Covid e di disgrazie.
C'è chi non sa fare altro o di meglio, c'è chi ci lucra/guadagna sopra.
È pur vero che il Covid ha portato via il lavoro a molti, ma nel contempo lo ha regalato ad altri... c'e – infatti – un "fiorire" di esperti e di "addetti ai lavori", talora saccenti e incompetenti.
Ai bambini si chiedono rappresentazioni e disegni – possibilmente – formali e stereotipati, li si invita (leggasi impegna) – e magari come compiti per le vacanze delle feste natalizie – a inventare/completare frasi, storie… e, ai quelli “più grandi”, sinonimi e verbi sorretti da una dovuta analisi grammaticale per esprimere sentimenti ed emozioni.
E noi adulti – proprio perché ci pre-occupiamo di loro – li consegnamo e affidiamo a una quotidianità preconfezionata, con orari, spazi, attività possibili e declinabili con/su ciò che noi grandi (responsabilmente) abbiamo scelto e predisposto per loro.
Se poi stanno davanti alla tv o con un videogioco – anche scaricabile dal Play Store sullo smartphone, “buoni, tranquilli e soli” in camera, e gli offriamo un bel pacchetto di croccantini, di patatine, un buon panino super-farcito, un gelato megagalattico… tanto meglio, almeno saranno impegnati!
Esagero, certamente, in questa rappresentazione, ma c’è molto di vero da quanto si osserva e si racconta tra gli adulti.
Ma è pur vero che la pandemia, con la sua portata di norme e vincoli di “sicurezza”, carica d’ansia quegli insegnanti che non tollerano “di rimanere indietro con il programma”. Sono forse quegli insegnanti che, come la Mastrocola, pensano bene di caricare di compiti i bambini, così si recuperano gli apprendimenti.
E può succedere che a casa i genitori “si allineano” a tali disposizioni.
Sorge spontanea una domanda… no, non una, ma tante.
Quanto hanno a che fare i compiti con la motivazione ad apprendere?
E come – in termini di professionalità e relazione pedagogica/didattica – pesano le condizioni del fare scuola, oggi?
Perché gli studenti, soprattutto della secondaria di secondo grado, ricorrono alle lezioni private?
Cosa rimane di metodi e strategie didattiche che, fino a solo due anni fa, molti insegnanti praticavano ai fini di un processo d’insegnamento/apprendimento, significativo e motivante, in relazione alla classe e al gruppo di scolari/allievi?
Credo siano ancora praticabili il brainstorming su situazione, tema, oggetto di/su cui trattare; il problem solving e sottese potenzialità per il pensiero divergente/creativo e studio “rigoroso”.
Certamente confinato ed escluso il cooperative learning come risorsa e terreno per mobilitare, sommare, estendere contemporaneamente le potenzialità di ciascun alunno per raggiungere un obiettivo (conoscenza e competenza) in un tempo minore.
C’è chi privilegia(-va) l’accezione e pratica di “lavoro di gruppo” che, pur nella sostanziale parità dei soggetti, profila l’individuazione di regole, scelte e condivise dal gruppo, la distribuzione dei ruoli e chiama in gioco le capacità di ciascuno in ragione del progetto/studio assunto dal gruppo.
Purtroppo si svilisce la significatività della lezione frontale – come momento di indirizzo (iniziale o intermedio) o di sintesi (provvisoria o finale) – per stimolare attenzione, capacità di prendere appunti, concettualizzare, astrarre, estrapolare.
Sì perché la lezione frontale diventa lezione letta, gridata – per arrivare a quelli degli ultimi banchi, in ragione della dovuta quanto opportuna distanza – e soffocata dalla mascherina.
Le distanze sono necessarie, la mascherina ancor più.
D’accordo. Ma guardiamoli questi alunni, questi bambini costretti a tener per più ore la mascherina e “fermi e immobili”.
Qualche bambino, davvero malandrino, trova il modo di riappropriarsi della sua corporeità e di – pur poco – movimento: cosi fa cadere la penna in terra.
La maestra può solo limitarsi a sgridarlo perché non fa “attenzione alle sue cose”.
D’altro canto (mi si racconta), nella scuola media, un ragazzino ha avuto un richiamo con minaccia di sospensione in quando si è messo a passeggiare per l’aula, se non addirittura a correre.
Mi chiedo se sia possibile prevedere degli “stacchi”, dei momenti di “respiro e movimento”, magari con dovute turnazioni e anche digerendo un certo andirivieni.
Mi pare di poter dedurre che l’immobilismo in classe (tutti seduti e fermi) al proprio banco, non sia compensato (non si deve, non si può… e comunque è bene ridurre al minimo o al massimo, dipende da come si guarda/considera) da visite a musei, città d’arte, archivi e altri tipi di “banca dati”.
Diventa ardua impresa utilizzare e fruire (se ci sono) la biblioteca della scuola o le aule multimediali.
Qualcuno rimbrotta: non ci sono altri locali/laboratori per lo svolgimento di specifiche attività, né piccole aule, né palestra, né tantomeno auditorium.
Se così è, perché non cercare spazi e segni altrove? Uscire dalle scuole per riscoprire il territorio, i suoi saperi, le sue storie, le persone che lo animano, magari nel quadro di un tempo scuola variamente articolato.
Perché non pensare ad attrezzare – magari dagli stessi alunni – un “angolo” dell’aula, superando il significato di aula-contenitore ove (oggi) “si sta” fermi e passivi al proprio banco, nonostante il sapiente “escamotage” dei banchi a rotelle?
Che ne è della ricerca, magari interdisciplinare, se neppure i docenti possono raccordarsi tra loro e su specificità epistemologica delle discipline quale potenzialità per “fare cultura” approfondendo, allargando, riorganizzando, costruendo conoscenze e tecniche operative?
Per fortuna non mancano esercizi, prove e verifiche… ma senza troppo scrivere/argomentare; preferibili i quesiti a risposta singola e multipla, vero/falso, corrispondenze, completamento schemi o mappe e – ma raramente – quesiti a risposta aperta con non più di tot righe.
I bambini della scuola primaria sono graziati: possono scrivere (copiare) paginate di ricerca navigando in internet e con l’aiuto di mamma e papà… anzi no, dei nonni.
Tanto ora non c’è più il voto, ha preso campo il giudizio… poco importa se la valutazione resta un sistema rigido e inconfutabile, chiusa o consegnata a stringhe linguistiche generiche, ambigue, ambivalenti, mentre sempre più va sbiandendo la dovuta attenzione sul sistema delle responsabilità, su quegli elementi relativi agli input, alle risorse, al contesto, ai processi che determinano il prodotto finale della scuola.
Certamente mezzi e sussidi didattici sono speculari ai metodi del fare scuola: grande protagonista è il manuale o libro di testo; seppur qualcuno davvero rigoroso e – anche – operativo, resta un dubbio: gli si può assegnare un buon grado di coinvolgimento di canali recettivi e attivi del discente, di motivazione ad apprendere, di soddisfacenti percorsi e risposte?
Ma riprendo da dove è iniziata la mia “riflessione”.
Se “sic stantibus rebus” a scuola, che fare a casa con i bambini?
Pur brevi passeggiate a piedi, in bicicletta, con le dovute accortezze in quegli angoli di città e/o del quartiere e ri-guardando da diversi punti di vista e prospettiva; semplici ma emozionanti letture di brevi storie, fiabe, favole, fumetti e barzellette; certo anche vedere cartoni animati, o documentari o film; far diventare i “momenti insieme” occasioni di incontro/scambio di comunicazioni e azioni e (perché no?) risate; piccoli compiti di collaborazione (riordinare, ri-organizzare spazi e cose…); giochi che investono e impegnano manualità, creatività… e tanto ancora.
Così… tanto per il piacere di fare, di conoscere e sapere, di stare insieme…
Lontano comunque da "brutti" pensieri.
Non rubiamo l'infanzia ai bambini; mi viene in mente il film di Benigni La vita è bella.
L’analogia è solo per il tipo di relazione/attenzione del padre con il proprio bambino: pur di proteggerlo dalla tragedia, finge di partecipare a un gioco a premi.
Sarebbe bello che ciascun bambino, ragazzo, adulto potesse dire: abbiamo vinto.
Patrizia Costanzo