Fa bene Dario Missaglia a offrirci queste riflessioni relative alla pandemia secondaria e alla risposta pedagogica che la scuola deve assumere.
La ricerca comprensibile per la “normalità” (intesa come tranquillità, sicurezza, ripresa di gesti e routine rassicuranti) non può passare attraverso una rimozione di massa di esperienze così profonde e sofferte. È questo il delicatissimo compito che attende gli insegnanti. Perché subito dopo i banchi (con rotelle o meno), le rime buccali, le mascherine, i percorsi segnalati, il medico scolastico, i trasporti, le aule e i bagni, i responsabili delle diverse funzioni, i lavoratori “fragili” e i test sierologici, gli organici, le nomine, arrivano “loro”: alunni e alunne di ogni età, quella umanità di cui abbiamo reclamato la vicinanza nei mesi del distanziamento forzato. Alunni e alunne che tornano a scuola pieni di esperienze anche dure, ma pieni anche di attese. Pieni, però, non vuoti di lacune. Si avverte la mancanza di uno sguardo pedagogico; la capacità di saper coniugare sicurezza e didattica, di recuperare un valore pieno alla relazione educativa e provare una progettualità educativa nella straordinarietà.
Perché nulla di questo presente è normale. Stiamo affrontando un’emergenza senza precedenti. I ragazzi hanno bisogno di essere ascoltati e di essere aiutati a comprendere come affrontare la complessità della loro vita emotiva di cui non conoscono gli alfabeti.
L'isolamento prolungato ha accresciuto in maniera preoccupante tendenze già in essere tra i più giovani: isolamento, disagio emotivo, sregolatezza, ansia, depressione, difficoltà di concentrazione, disturbi alimentari, insonnia, sfiducia in sé stessi e nel futuro, dipendenza da social e videogiochi, oltre che da alcool e droghe, ritiro sociale, aggressività, autolesionismo.
Aumentano in modo esponenziale i tentativi di suicidio, il consumo di alcool, i disturbi del comportamento alimentare, le violenze sul web e nelle relazioni quotidiane. Nel nostro Paese il suicidio è la seconda causa di morte tra i ragazzi: oggi 6 su 100 di età compresa tra i 14 e i 19 anni hanno provato a togliersi la vita e si certifica un aumento del 30 per cento degli accessi al pronto soccorso tra i minori di età tra i 10 e i 17 anni, per tentati suicidi o ideazione suicidaria, passata, nei minorenni dei Day Hospital psichiatrici, dal 10 per cento all'80 per cento.
In particolare, dall'indagine Ipsos - Save the Children emerge che si è anche minato profondamente l'approccio alla socialità e alle relazioni: 6 adolescenti su 10 ritengono di aver perso la capacità di socializzare, di aver sofferto per non aver potuto vivere le esperienze sentimentali adolescenziali e solo un giovane su 4 ritiene che tutto tornerà come prima.
L'aspetto più rilevante non riguarda solo le azioni terapeutiche volte a fronteggiare questo disagio esistenziale, ma ciò che gli adulti possono e devono fare per aiutare i bambini, gli adolescenti e i giovani adulti a prevenire tale disagio e le sue conseguenze, affiancandoli con attività educative e pedagogiche, e a coltivare progetti per il futuro.
L’insegnante che non vuole fallire nel suo compito non può mettere in parentesi o, peggio, ignorare la portata e la qualità del sapere extrascolastico che struttura la vita dei suoi studenti. E prima di mettere mano all’insegnamento della sua disciplina, deve andare a cercare, nell’esperienza del mondo che i ragazzi e i giovani fanno oggi, anzi nella filigrana di quella esperienza, tutte quelle conoscenze che incrociano in qualche maniera, anche minimale, i saperi disciplinari. Deve identificarle come strumenti delle discipline e valorizzarle nel piano della sua didattica. L’esperienza degli allievi (e le attività emotivamente a loro vicine, quelle più motivanti) diventano il punto di partenza per arrivare ai saperi disciplinari. Non viceversa.
Ciò implica che il docente padroneggi e metta in campo competenze professionali particolari, nuove rispetto al passato, non puramente disciplinari né puramente socio-relazionali, collocabili a un punto di intersezione alto tra conoscenze curricolari dure e certe, conoscenze esistenziali complesse e dinamiche, e motivi culturali attinenti alla vita dei giovani.
Lo sguardo pedagogico appare perciò ancora più rilevante in questi tempi di grandi trasformazioni sociali, relazionali e culturali ed economiche. L’emergenza COVID-19 ha fatto emergere fragilità educative e pedagogiche presenti nella scuola già prima della pandemia ed ora impongono ulteriori interventi per garantire il benessere educativo e psicologico tramite azioni concrete per prevenire e recuperare i fenomeni di fragilità e vulnerabilità sociale ed educativa, abbandono scolastico precoce e dispersione, contrastare le diverse povertà educative ad ogni livello.
In particolare, per sostenere il pieno sviluppo della persona occorre promuovere le competenze socio-affettive e di genere tra gli studenti delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado. La crescita dell'intelligenza emotiva è una specifica competenza, troppo trascurata nella scuola “cartesiana” fondata solo sulla ratio. L'intelligenza e la competenza hanno bisogno del cuore per continuare ad alimentare la motivazione e l'empatia nelle relazioni educative, soprattutto nelle situazioni delicate con persone in condizione di fragilità. L'educazione non è un evento programmabile, perché è sempre aperto all'imprevisto, non è una traiettoria priva di senso, ma un percorso che ha sempre bisogno di un orientamento di senso. Il linguaggio della vita emotiva non va confuso con un sentimentalismo sdolcinato o astratto. Al contrario, è qualcosa di concreto che dà senso alle relazioni. Perciò nei processi formativi occorre ridare dignità ai sentimenti, riconoscerli, pensarli e agirli nelle relazioni. Di questo, come ci suggerisce Dario Missaglia, deve tener conto una riscrittura di un protocollo pedagogico.
Giorgio Crescenza, Dottore di ricerca in Pedagogia